Papa Bonifacio VIII, il papa odiato da Dante

Fu l’uomo che rappresentò il potere pontificio da vero monarca. Sulla sua tavola i cucchiai o le "furcelle" (forchette a tre rebbi) erano d'oro, come le saliere e le salsiere, mentre coppe o bicchieri avevano la trasparenza preziosa delle pietre dure. Il tutto sfavillava su candide tovaglie di lino bianco e rosa o di luccicanti sete. Durante i lussuosi ricevimenti sedeva ad un tavolo posto il più in alto degli altri, per far comprendere a tutti quale fosse il suo ruolo. Benedetto Caetani era uomo colto e preparato, e quando salì al Soglio Pontificio si circondò anche di professionisti qualificati nell’arte del cibo. Cuochi, panettieri, bottiglieri, speziali animavano la sua cucina, e la loro responsabilità era grandissima, perché Bonifacio VIII viveva nel terrore di essere avvelenato dai nemici.

I bottiglieri prima di servire le bevande le assaggiavano davanti a lui, mentre i capocuochi dovevano, prima di porgergli il piatto, ricevere dal Papa "l'assazum", strumento che servica per l’assaggio degli alimenti al fine di verificarne la non tossicità. Dai registri delle spese della corte pontificia è possibile scoprire che Bonifacio mangiava carne ben quattro volte la settimana, le sue leccornie preferite erano maiali, capretti, agnelli. Il pesce, preparato in mille ricette, arrivava in tavola tutti i giorni di vigilia e le spezie venivano comprate in grosse quantità. La sua mensa, come tutta la sua esistenza, doveva essere improntata al massimo splendore. La sua tavola, posta più in alto rispetto a quelle degli ospiti, fossero pure principi, re, altissimi prelati, doveva subito chiarire con chi avevano a che fare. Sono proprio gli inventari nascosti negli archivi, i ricettari, i registri delle spese delle cucine popolari ad aiutarmi a ricostruire la figura di questo Papa, gran signore convinto assertore del suo potere religioso, al disopra di tutti, compreso quello dell’Imperatore. Su tovaglie di delicato lino di Parigi, o preziosa seta lucchese, i cucchiai, “le furcelle” (rarissime ai tempi: forchette a 3 rebbi) così come saliere e salsiere, erano d’oro massiccio, finemente cesellato. Coppe, bicchieri, brocche, scintillavano coi bagliori delle più rare pietre dure.

Riteneva che la sua “COQUINA DOMINICA” o “SEGRETA” dovesse essere necessariamente gestita da “SUPER COCI” capocuochi per garantirne l’altissimo livello e non far sgarrare la brigata che aveva l’alto onore di servire Sua Santità ed i suoi illustri ospiti. Brodieri, Panettieri, Bottiglieri etc. avevano la responsabilità non solo dell’eccellenza dei piatti e bevande che preparate, ma anche quella di salvaguardare l’incolumità del Papa. Il Santo Padre aveva una gran paura del veleno! Temeva che un bocconcino stuzzicante e gustoso potesse celare una pozione mortale. Era talmente terrorizzato da pretendere che i bottiglieri restassero fermi, impalati “CORAM DOMINUM” (davanti a lui!) sia quando gli versavano l’acqua (era quella di Fiuggi perché non si fidava delle fontane romane) che il vino (CESANESE DEL PIGLIO, il suo preferito). Poi i SUPERCOCI, prima di servirgli le loro prelibatezze, dovevano infilzarvi uno strumento da lui fornito al momento, che ne avrebbe garantito la non tossicità. Questo era ASSAZUM, e Bonifacio ne aveva una collezione, come apprendo da un inventario: a forma di alberello, di lingua di serpente, di unicorno…

Ma perché aveva tanta paura? Chi poteva voler male a Sua Santità? In realtà il suo strapotere arrogante, il suo eccessivo peso politico ed economico urtava molte suscettibilità, come quella di Filippo Il Bello, re di Francia che stava diventando uno stato forte e autonomo e che si era stufato di pagare tasse e decime al Papa e perciò aveva confiscato, infischiandosene di bolle e scomuniche, tutti i beni della Chiesa. Poi c’era la potente famiglia romana del Colonna, grande sostenitrice del pio Celestino V, che languiva nell’eremo, gliela aveva giurata. Ma col colpo di genio della grande Perdonanza, il Giubileo, Bonifacio giocò una carta vincente che lo portò al massimo della potenza e della visibilità nel mondo cristiano. Questo evento epocale avrebbe poi rimpinguato le casse pontificie sempre un po’ languenti, portando a Roma migliaia di pellegrini pronti a versare generosi oboli per vedersi cancellati i peccati. Bonifacio proclamò che ogni 100 anni la Chiesa avrebbe offerto a tutti la possibilità di tornare ad avere un anima candida come la neve, venendo in devoto pellegrinaggio a Roma, visitando le basiliche dei Santi Pietro e Paolo. Così il 22 febbraio 1300 dichiarò aperto l’anno del Perdono. 

Le sue parole si possono leggere anche oggi nell’architrave della porta maggiore del Duomo di Siena: “Annus Centenus-Romae semper est jubileus/Crimina laxantur- cui poenitet ista donatur/ Hoc declaravit-Bonifacius et roboravit” (L’anno centesimo a Roma e sempre giubilare/I peccati sono assolti le pene condonate/ Questo dichiarò Bonifacio e confermò)


Timballo alla Bonifacio VIII

Ingredienti per 4 pax: Pasta per timballi preparata con gr 250 di farina, 120 di burro, 2 uova intere, un pizzico di sale, ½ dl d’acqua.

Imburrare lo stampo da timballo e infornarlo e foderarlo di pasta. Lasciare un po’ di impasto per il coperchio che deve cuocersi a parte su una placca leggermente imburrata. Cuocere a 180° per circa 20 minuti. Una volta cotta la crosta, lasciarla freddare, estrarla dallo stampo, fino al momento di riempirlo. Ripieno: 500 gr di fettuccine all’uovo, 250 gr di ragù, 250gr di fegatini di pollo cotti in olio e burro, marinati con prezzemolo e mentuccia. Gr150 di funghi porcini tagliati a lamelle e cotti con olio e aromi. ½ tartufo nero tagliato a velo. Gr250 di prosciutto cotto a fette larghe. Cuocere le tagliatelle e condire col ragù. Riempire lo stampo di pasta alternando strati di pasta, fegatini, tartufo e fette di prosciutto e finire con una fetta di prosciutto. Mettervi sopra il coperchio di pasta. Passare in forno per qualche minuto. Ritirare il timballo, farlo riposare un paio di minuti. Sfornarlo e servire. Sarà all’altezza di appetiti papali.

 

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