Anna Kuliscioff
«Mi auguro, per il
trionfo della causa del mio sesso,
solo un po’ più di
solidarietà fra le donne.
Allora forse si
avvererà la profezia del più grande scrittore del nostro secolo – Victor Hugo –
che presagì alla
donna quello che Gladstone
presagì all’operaio:
che cioè il secolo XX sarà il secolo della donna»
Anna Kuliscioff
Napoli, 4 dicembre 1884
Mio carissimo,
la tua lettera buona e
affettuosa m’ha fatto del bene, ma… c’è sempre quei ma e se maledetti,
che inciampano e che avvelenano ogni gioia, ogni speranza. Io non dubito e
sento che mi vuoi bene come me l’hai voluto, come forse me lo vorrai sempre, il
guaio è solamente che questo bene se avesse potuto rendere felicissima un’altra
donna, a me, infelice disiquilibrata, mi lascia tanto e tanto a desiderare che
mi fa perfino cattiva ed ingiusta, incapace d’apprezzare quel poco di bene che
posso ricevere, e che tu, presa la tua natura, le tue occupazioni ed il resto,
puoi darmi. Ti ricordi una tua frase significante prima della tua partenza nel
mese di ottobre, quando ti scongiuravo istericamente piangendo di lasciarmi per
la tua e mia tranquillità? Tu mi dicesti «siamo infelici ambedue» e qui è la
sintesi delle nostre relazioni. Tu cerchi in me il riposo, io in te la
vita. Io sono per te poco donna, tu per me sei un’astrazione. Io non ho la
maternità. Tu non mi dai l’umano del contatto fra i sessi diversi.
Tu non vuoi o non puoi capire che l’abbandono e la pienezza non sono che la
conseguenza d’una vita reciproca piena di comprensione dei pensieri, dei
sentimenti, delle aspirazioni. Questo concetto è una vera mosca bianca, che non
si è trovata nemmeno nella nostra relazione. L’uomo non sente questo bisogno;
tu pieno di vita, d’attività, d’ingegno e di ricchezza morale proprio è
naturale che non puoi sentire il bisogno d’un salice piangente, i cui rami sono
già piegati a toccare presto la terra, che cosa puoi tu trovare in questa
decrepitezza fisica e morale? Lo riconosco, purtroppo, lo sento fino a piangere
nel momento in cui ti scrivo, ma non voglio illudermi, non voglio illuderti. Ho
portato la mia critica fino a sviscerarmi completamente, e qui è la ragione
d’essermi trovata come perduta. Sì, ho perduta l’illusione di me stessa, ho
perduto l’illusione che possiamo mai esser soddisfatti. Tanto più che tu sai
quanto in una donna un poco non volgare è forte il lato morale nell’amore;
Gretehen perfino s’informa al Faust se crede alla religione, e perciò capirai
che svanita questa armonia morale, questo legame non esistendo più, quanto
doloroso è di conservare il convivere per semplice abitudine, per semplice memoria
del passato. Adesso sento per te maggiore tenerezza, sento per te un affetto
profondo, ma sento più tranquilla la mia coscienza, quando non pretendo più
d’essere la tua amante, e non esigo da te le attenzioni d’un amante… Dimmi
sinceramente non consideri anche tu l’amore, come lo sento io? Tu sei per me
sempre quello che fosti prima: dire che sei il padre della mia salvezza, della
Ninuccia, è dir tutto. Tu sai quanto poco entra la sensualità nelle mie
relazioni con te, non voglio che rimanga essa sola l’ultima
cosa nell’amore quando non v’hanno tutti gli altri attributi che costituiscono
l’essenza dell’amore. Non sono romantica, ma desidero la realtà umana, questo è
impossibile; perché dobbiamo dunque battere la strada tradizionale dei mariti e
delle mogli? So che sono forse crudele verso di noi ambedue, ma la critica
inesorabile di due mesi ha maturato questo frutto, è amaro per noi ambedue ed
io piango. Ti bacio di cuore anche per la nostra adorabile
Ninuccia. Sempre tua
Nina
Vissi più di quarant’anni in Italia da straniera, come persona tollerata dalla polizia, sotto la spada di Damocle di un mai revocato provvedimento di espulsione. Dicono di me che ero bellissima e dolce, con la lunga treccia bionda, gli occhi cerulei, la figura minuta ed elegante, sempre vestita con cura, tra cappelli piumati e pizzi neri. La giovane russa che somigliava, più che ad una severa nichilista che all’eroina di un romanzo di Tolstoj.
”E
forse, sebbene così diverse nelle attività e nelle scelte, qualcosa di profondo
in comune mi lega alla mia infelice omonima Karenina. Come lei sono stata
malata d’amore, affetta da una nevrosi sentimentale che mi dettava un bisogno
d’affetto incolmabile, irrimediabile, che neanche la passione politica potè mai
alleviare. E anche io incontrai il mio Vronskij nella persona di Andrea Costa.
Socialista romagnolo, che mi ha amata sì, ma in modo troppo prosaico e
tradizionale per poter rispondere alla mia richiesta di amore assoluto, di
totale e completa appartenenza di anime, e insieme di intimo rispetto. La
storia di questo nostro amore e del suo tormentoso tramonto è consegnata ad
alcune nostre lettere. Costa si comportò da maschio tradizionale, chiedendomi
di non dare scandalo, di non frequentare i compagni di lotta senza di lui. Non
seppe reagire in modo sufficientemente maturo alla paternità, alla nascita di
quella figlia che io avevo voluto come compimento del nostro amore. Ma la mia
forza fu proprio quella di non negarmi alla vita e all’amore, e conservare, a
prezzo di grandi sofferenze e difficoltà, la mia identità di rivoluzionaria e
di donna emancipata. Mi chiamano zarina
d’Italia, dottora dei poveri, pugno di ferro nel guanto di velluto, deliziosa
bionda che parla come un uomo, madonna slava, madrina del socialismo, nemica
della Rivoluzione d’Ottobre o più semplicemente signora Anna. Sono stata una precocissima
rivoluzionaria, anarchica, socialista internazionalista, ma soprattutto sono
stata una femminista. Mi sono legata sentimentalmente a due importanti uomini
politici italiani. Il primo, Andrea Costa, anarchico e fondatore del Partito
Socialista che mi ha dato Andreina, la mia adorata figlia, l’altro è Filippo
Turati. Lo incontrai a Napoli. Ci eravamo conosciuti
per lettera. Avevo mobilitato il mondo socialista e non solo, a favore di una
grande colletta a sostegno degli esuli russi e dei perseguitati dallo zarismo. “
Io rimasi veramente senza parola. Anna
era bellissima, un’apparizione di luce…” aveva detto di me agli amici. Dopo solo pochi giorni dal nostro ricordo scrissi
a Colajanni: “L’armonia tra genialità e cuore è così rara, e questo è
il dono raro di Turati. L’anima inasprita si riposa incontrando delle nature
come la sua e principia a riconciliarsi un po’ col genere umano che nella
peggior parte degli individui è una brutta bestia”. Il nostro incontro segnerà la vita per entrambi. Contemporaneamente
si consumò la definitiva rottura con Andrea. Ricordo che durante alcuni giorni
di vacanza a Como, il 4 luglio 1885 gli scrissi: “E’ certo che non mi sarà
possibile di regolare ogni mio passo secondo i tuoi desideri, dovrei allora
rinunciare alla mia libertà, simulare una soggezione che non è umiliante
soltanto quando è reciproca e determinata dall’intensità dell’affetto. Né io,
né te abbiamo colpa di quello che è stato conseguenza dei nostri temperamenti e
delle condizioni in cui vivevamo. Ma certo avremmo colpa se volessimo
ribellarci contro le fatalità, che sono conseguenze del passato, e voler
mascherare vincoli artificiali. Se il tuo desiderio, che sarebbe meglio di esser
morti l’uno per l’altro, non è realizzabile per quella parte di legame che
mantiene fra di noi la bambina, credo che possiamo almeno soddisfare a quel
diritto di libertà individuale ed a quel bisogno di sincerità che è nelle
nostre idee e nei nostri sentimenti. A questo patto anche il raffreddamento non
genererà disgusti; non ucciderà spero la benevolenza. E con questo desiderio ti
saluto e ti stringo la mano”.
Io
e Andrea siamo stati rivoluzionari e atei. A nostra figlia abbiamo trasmesso
valori di altruismo, di libertà e di amore. Andreina, crescendo è diventata, al
contrario, profondamente cattolica, sposando un giovane della borghesia
milanese, figlio dell’industriale Gavazzi, la ricca famiglia di setaioli e
conservatori con “tinta clericale”. Cattolici
convinti, ma anche banchieri e politici, con un’ideologia di fondo caratterizzata
per “severo conservatorismo cattolico con forti venature autoritarie, non
privo peraltro di interessanti sensibilità e genuine aperture sul piano
sociale”. Il matrimonio si celebrò nel mese di settembre
del 1904. All’inizio sollevò qualche polemica giornalistica e qualche imbarazzo
ma presto tutto si risolse nel migliore dei modi. I giornali soffiarono sul
fuoco e io, presa da sconforto, inviai una lettera a Turati: “Mio carissimo,
per compiere il mio calvario ci è voluto anche il can can dei giornali. Ieri
“L’Italia del Popolo” da vera canaglia, volendo colpire me, diede la notizia
del fidanzamento di Ninetta con l’aggiunta del matrimonio religioso, dove si
rannicchiava la freccia velenosa. Il Suzzi del “Sera” mi mandò non so quale suo
reporter per sapere quel che c’è di vero. Io risposi che del vero c’è che i
giovani si sono promessi e si sposeranno; in che forma poi, ne sono arbitri
essi stessi, e lamia figlia, avendo 22 anni, è libera di agire anche al di
fuori della mia volontà. […] E qui tutto sarebbe finito, se il “Corriere”,
stupidamente, non avesse oggi accompagnato la notizia con due righe ben
ridicole, e cioè che, se è vero matrimonio religioso, la vittoria sarebbe della
famiglia.
Prima di lasciare Andrea gli scrissi: “Tu cerchi in me il riposo, io in te la vita. Tu non vuoi o non puoi capire
che l’abbandono, la pienezza non sono che la conseguenza di una vita reciproca
piena di comprensione dei pensieri, dei sentimenti e delle aspirazioni» Lui, scandalizzato e risentito per il matrimonio in chiesa di Andreina, mi
rispose con una dura lettera, ma io gli replicai:
«Milano, 27 marzo 1904
Mio caro Andreino, sì, hai ragione, è una gran malinconia di dover
convincersi che noi non siamo i nostri figli, e che essi vogliono far la loro
vita, astrazione fatta dai genitori, come l’abbiamo fatta noi ai nostri tempi.
La malinconia non proviene da quel piccolo incidente di matrimonio religioso,
ma dal fatto che la nostra figlia non ha né l’animo ribelle, né il temperamento
di combattività. E’ una povera bambina buona, gentile, abbastanza intelligente,
affettuosa, creata per la famiglia e per avere figli propri. Essa non fu mai
socialista, né miscredente: nel ’98 fece voto alla Madonna perché io non fossi
condannata, la Madonna non l’ascoltò, allora pregava un Dio astratto. Per essa
dunque non c’era né tradimento alla propria coscienza, né dovere di coerenza
che combatte sulla breccia per un ideale lontano in contrasto con la società.
Un pensiero la tormentava, perché vuol molto bene a me, ch’io avrei potuto
soffrire, se avesse fatto il matrimonio religioso, e bada, Andrea, io non
sapeva che si fosse già passata parola fra loro due, non credevo lontanamente
possibile un matrimonio di questo genere, non per causa della ragazza ma per la
sfortuna che le portava io d’esserle madre, reproba e reietta dalla gente per
bene. Ebbene una sera se ne parlò del matrimonio religioso ed io, perché essa
non abbia alcuna amarezza da parte mia, le dissi che per parte mia odio tutte
le formalità del matrimonio, ma in verità mi ripugna più l’atto commerciale del
matrimonio civile, poiché nel matrimonio religioso, per un momento almeno, si
ha la sensazione poetica della fusione delle anime. D’altronde Andreina ha
ventidue anni, e certo come abbiamo fatto anche noi, alla fine, anche con
dolore, avrebbe potuto fare a meno del nostro consenso. Non si è fatto nessun
genere di dedizione e di umiliazione; allora si potrebbe dire anche viceversa, avendo
il figlio affrontato tutti i fulmini del parentorio più nero del
conservatorismo milanese. D’altronde come buoni e convinti socialisti dobbiamo
rispettare anche la volontà e l’individualità dei nostri figli, sotto questo
rapporto non ho nulla da rimproverarmi, ed ho la coscienza tranquilla d’essermi
comportata come onestamente e sinceramente sento il dovere della maternità. è
stato un fallimento, come dici tu, ma un fallimento non doloso; poiché se la
Ninetta non è l’immagine nostra, è pur una brava e buona ragazza. Io sono stata
angosciata per molti anni, io capivo che la povera Ninetta scontava gli slanci
generosi della sua madre, io sapevo che un giovane di famiglia borghese, dati i
pregiudizi sociali, familiari e religiosi, difficilmente se non molto
innamorato la sposerebbe per le presunte colpe della madre, che schiaffeggiava
la società sotto tutti i rapporti. Ora questo incubo fu frequente causa del
pormi serenamente questo problema: se non fosse più onesto da parte mia, per la
felicità di Ninetta, sopprimermi. E lo stato d’animo mio era tale che solo una
ragione, che mi disse Filippo, mi tratteneva nel commettere una grossa
sciocchezza, e fu, che intanto, lasciavo la Ninetta sola. Tutto ciò ti spiega,
come e quanto mi sembrano meschine tutte le punte delle canagliate politiche
all’“Italia del Popolo,” come sono indifferente alla pretesa menomazione della
mia persona; come mi par settario, e come mi pare primitivo il sentimento dei
genitori che vogliono esercitare pressioni sull’animo dei figli. Se la Ninetta
fosse minacciata da una disgrazia, se l’uomo da lei prescelto fosse indegno,
allora per la sua salvezza, per il suo bene si può anche violare le norme di
libertà di coscienza e di azione. Ma se va incontro alla sua felicità, sia pur
benedetta anche dal prete, ne sono contenta ugualmente. T’abbraccio di cuore.
Non volermi male e sono meno peggio di quel che mi credi. Anna»
Sono nata a Moskaja, nei pressi di Sinferopoli, in Crimea, da una ricca
famiglia di commercianti ebrei. La mia infanzia è trascorsa serena. I miei
genitori mi hanno educata secondo i principi liberali. Con mio padre ho
mantenuto ottimi rapporti per tutta la vita, incontrandolo spesso anche negli
anni del mio esilio. Negli anni del liceo a Sinferopoli ho studiato la musica e
le lingue. Nell’ottobre del 1871 ho lasciato la mia famiglia e il mio paese per
Zurigo, dove mi sono iscritta al Politecnico. La Svizzera aveva rappresentato
per i numerosissimi esuli russi un luogo di elezione. Durante la mia permanenza
ne incontrai molti con i quali riuscii a stringere rapporti e amicizie. Nel
1873 lo zar Alessandro II impose a tutti gli studenti di lasciare le università
estere e tornare in patria. Furiosa, tornai a casa insieme a Petr Makarevic, diventato
nel frattempo mio marito. In quegli anni condivisi gli ideali del movimento
dell’andata verso il popolo, forte dell’idea di poter contribuire a modificare
la realtà contadina del mio Paese. Quella fu per me un’esperienza fondamentale
che mi segnò per sempre. Incominciai con tutta me stessa, con spirito di
dedizione e devozione quasi mistico ad occuparmi delle plebi contadine. Il
movimento fu duramente represso e annientato nel 1875.Il 14 aprile 1877 lasciai
la Russia con il passaporto di mia sorella per tornare in Svizzera. Fu nell’agosto
di quell’anno che incontrai in Svizzera Andrea Costa. Partecipavamo entrambi ad
una serie di congressi dell’internazionale anarchica – a Saint-Imier, Verviers,
Gand. Lo rividi poi a Parigi l’11 dicembre di quello stesso anno, giorno
“sacro” del nostro amore. Andammo presto a vivere insieme in rue Aboukir. Per
sopravvivere vendevamo fiori. Il resto del tempo lo dedicavamo
all’organizzazione politica. Andrea era appassionato di politica. Era anche un
propagandista infaticabile e un efficiente organizzatore. Diffuse il verbo
anarchico per tutta la Romagna e oltre, fin nelle Marche e in Toscana. Con
Bakunin si schierò contro Marx e la prima internazionale. Fondò, nel settembre
del 1872, insieme a Cafiero e Malatesta, la Federazione italiana
dell’Internazionale anarchica. Fu in quegli anni che prese parte a una
serie di moti improvvisati e violenti un po’ dappertutto nel Paese. Acquistò
fama internazionale ma anche la garanzia di una costante sorveglianza da parte
della polizia e un’infinita sequela di arresti. In carcere studiò come un pazzo.
Imparò l’inglese, il francese e il tedesco e qualcosa anche di russo. La
dimensione internazionale del suo progetto politico si coniugò bene con la
necessità di sfuggire alle patrie galere. Lasciò l’Italia nel 1877 per seguire le
tracce di Guesde e del suo collettivismo anarchico. Era molto legato a Malon, l’eroe
della Comune, avviato a un profondo ripensamento riformista. In quegli anni diventai
la segretaria della sezione della Federazione anarchica francese. Insieme collaboravamo
alla rivista Egalité. Venimmo in seguito arrestati con numerosi altri nostri
compagni. Dalle nostre celle, io e Andrea, comunicavamo attraverso le lettere. Andrea
subiva la caccia all’anarchico che si era diffusa in Europa. Una volta libera,
mi rifugiai in Svizzera: prima a Ginevra e poi a Lugano. Il nostro progetto era
quello di trasferirci in Italia e svolgere lì l’attività politica. E così fu.
Arrivai in Italia, a Firenze, il 30 settembre 1878. Fui, ahimé, subito
arrestata il 2 ottobre e condotta nel carcere di Santa Verdiana, proprio quando
Andrea, libero per un’amnistia, si trovava a Lugano. Restai in carcere tredici
mesi, fino al novembre del 1879. Le delusioni per i fallimenti delle
insurrezioni anarchiche di quel periodo ci spinsero verso un nuovo
programma politico, a partire dal quale, Andrea Costa definirà il percorso che
lo porterà, nel 1882, ad essere il primo rappresentante socialista nel
parlamento italiano. Nel frattempo noi, poveri amanti, vivevamo lontani.
Soltanto le lettere e solo le lettere ci tennero vicini. Nel gennaio del 1880
uscii dal carcere e finalmente potetti riabbracciarlo a Bologna, a casa di
Federico Sutter. La polizia ci sorvegliava. E così il 22 aprile venimmo
nuovamente arrestati. Nelle nostre lettere gli scrivevo di essere disponibile a
collaborare alla sua azione politica. Ero sempre più convinta che fosse
necessaria una forma di governo liberale come base di partenza per un programma
di profondo cambiamento. La situazione drammaticamente arretrata e bloccata
della mia Russia e lo scenario politico europeo mi fecero riflettere molto.
Intanto incominciavo ad avvertire un forte desiderio di maternità. Gli ultimi
mesi del 1880 diventarono per il nostro amore, un banco di prova. Io ero ancora
profondamente innamorata mentre Andrea, assorbito dall’attività politica, era
sempre da un’altra parte. Questa situazione mi intristiva molto. Nel 1881 mi
trasferii a Imola, dai Costa. Cercai di adattarmi all’ambiente piccolo borghese
e clericale nel quale riuscii comunque a muovermi stringendo legami
affettivi con il padre di Andrea e con sua sorella. L’8 dicembre di quell’anno,
con mia grande e incommensurabile gioia, nacque Andreina. Il nome lo scelsi io
per una dichiarazione di paternità e d’amore nei riguardi di Andrea. Per essere
sincera, fu anche un atto di orgoglio. Andrea era già padre di un altro
bambino, Andreino, figlio di Violetta, la sua fidanzata anconetana. Mia figlia
venne registrata con il nome di Andreana (Rosa, Rosalia) solo da Andrea. Il riconoscimento,
a causa della mia delicata posizione di esule russa, avverrà solo dieci anni
più tardi. L’ambiente di casa Costa mi limitava, così rifiutai di essere la
sposa romagnola, la casalinga madre e la compagna. Dopo un mese dal parto
lasciai Imola per la Svizzera. Quello fu la fine del nostro amore. Appena
arrivai a Berna chiesi di essere ammessa a frequentare la facoltà di Medicina.
I miei nuovi studi mi riporteranno poi ancora in Italia, a Torino, dove
frequentai i corsi di Lombroso, diventando amica di famiglia, poi andai a Padova
e infine a Napoli, dove mi laureai nel 1886. Arrivai a Napoli nel febbraio del
1884. Quello fu per me il periodo più triste. Vissi all’inizio in un albergo,
prima di trovare un piccolo appartamento grazie all’intercessione dei miei
nuovi amici, i Bovio. Con Andrea ci incontravamo pochissimo. Le sue assenze
erano lunghe e le nostre lettere sempre più svelte e superficiali.
Fortunatamente c’era lei, la mia Andreina. La Nina era cara e bella e m’amava veramente, che cosa si poteva
desiderare di più?
Con Filippo Turati voltai pagina e mi congedai da
Andrea molto presto. Era stata una sottoscrizione a favore delle vittime
delle persecuzioni zariste, promossa nell’autunno del 1884 dagli ambienti
dell’estrema sinistra milanese, a farci conoscere. Filippo mi propose di trasferirmi a Milano. Rifiutai, decisa a portare a
termine i miei studi. Mi specializzai in ginecologia nel novembre del 1886,
unica donna tra i 209 laureati. I miei studi
mi portarono a scoprire l'origine batterica delle febbri puerperali e questo mi
permise di salvare la vita un numero infinitesimale di madri che morivano dopo
il parto per incuria ed ignoranza. I milanesi mi chiamavano la "dottora
dei poveri" perché mi recavo nei quartieri poveri della città per prestare
soccorso alle persone malate, costrette a vivere le peggiori condizioni di
miseria. Dovetti affrontare innumerevoli complicazioni
burocratiche e un forte ostracismo accademico per potermi specializzare in
ginecologia, tant’è che dovetti spostarmi in diverse università da Torino a
Berna, a Napoli e Padova. Una volta laureata, specializzata, “libera sposa” e madre di Andreina, mi
stabilii con Filippo definitivamente a Milano. Era l’autunno del 1891.Andammo
ad abitare nell’appartamento di Portici Galleria n. 23 dove vissi fino alla mia
morte. Tentai di entrare all’Ospedale Maggiore di Milano ma non mi presero solo
perché ero una donna. Aprii allora uno studio privato che fu presto preso
d’assalto da una marea di povera gente che cercai di assistere anche fuori
dall’orario di lavoro. Mario Borsa, di cui curai la vecchia madre, di me disse “Molte
povere case della vecchia Milano la vedevano spesso salire, gracile e
leggiadra, fino a lassù in alto, al terzo o quarto piano. Erano operaie e
bambine, giovinette ammalate, mogli, madri, sorelle di modesti impiegati e
professionisti. Tutta gente in pena. La visita della dottora era sempre attesa
come una benedizione, non era infatti la visita di un medico. Era qualche cosa
di più. La scienza ha scarse risorse, ma una buona parola può essere un balsamo
e Anna Kuliscioff la diceva come le sapeva dire lei. Diventava così la
consolatrice, l’amica, la confidente di coloro che soffrivano e dei loro cari”
Brocchi
divenne assiduo frequentatore della mia casa, insieme ai nomi più illustri
della politica e della cultura di quel tempo, sede della storica rivista
Critica sociale. Descrisse così il nostro primo incontro: “mi batteva il
cuore quando l’ascensore mi depose all’ultimo piano dinanzi all’”appartamento”
di Anna Kulsicioff. Premei il bottone del campanello senza accorgermi che la
porta era accostata, non chiusa. Un piccolo andito, e di là un’anticamera fatta
più angusta da un alto armadio che occupava tutta una parete: si scorgeva a
destra una fila di stanze luminose; a sinistra, quasi di fronte a chi entrava,
lo studio-salotto che aveva per pareti a sud e a ponente due vetrate; quella di
mezzogiorno pareva bloccata dal fianco aquilonare e dalle abbaglianti guglie
del Duomo; nell’angolo formato dalle due vetrate posava un largo divano di
velluto verde. Vi stava seduta, quasi rannicchiata, la signora Anna, e una
raggiera di sole battendole sui capelli già scoloriti ne traeva un vago
bagliore d’oro”. Nel mio appartamento sovrastante la Galleria Vittorio
Emanuele, fui promotrice di uno dei salotti culturali più influenti nella
Milano della Belle Époque. Qualcuno disse che ero “il miglior cervello
politico del socialismo italiano”, ma anche la “medica chirurga russa,
deliziosa bionda ‘che parlava come un uomo’”. Essere belle, intelligenti,
autonome sembravano doti non assommabili in una donna. Io d’altra parte, per le
mie esperienze di vita personale, scientifica e politica, riuscii ad avere uno
sguardo più complesso sulle ragioni che causano il dominio maschile. Sono
sempre stata un’attivista politica e ho sostenuto con passione i diritti dei
lavoratori, soprattutto dei bambini e delle donne. Ho sempre pensato che, solo
attraverso il lavoro e l’indipendenza economica, la donna avrebbe potuto conseguire
la propria libertà e dignità pari all’uomo. Solo così avrebbe potuto affermarsi
nella vita politica e sociale. Principi che ho avuto modo di esporre anche nella
rivista "Il monopolio dell’uomo" fondata da Filippo Turati. Per le mie
idee politiche e sociali ho pagato purtroppo un prezzo molto alto. Ho conosciuto
il carcere duro, mi sono ammalata di tubercolosi e sono stata esiliata dalla
mia Russia, costretta ad abbandonarla molto presto.
Come mai
– mi chiedevo– isolare la questione della donna da tanti altri problemi
sociali, che hanno tutti origine dall’ingiustizia, che hanno tutti per base il
privilegio d’un sesso o di una classe? Posi questa domanda alla platea durante
la conferenza Il Monopolio dell’Uomo che tenni presso il Circolo Filologico
Milanese il 27 Aprile1890. All’inizio del mio discorso focalizzai l’attenzione
sull’origine dall’ingiustizia. Ma a differenza di teorici come Rousseau e Marx
che rintracciavano le radici dell’ineguaglianza sociale nella proprietà privata
o nello sfruttamento economico, io cercai di individuare una duplice
manifestazione del dominio maschile nel privilegio d’un sesso o di una classe. La
donna era costretta a vivere una millenaria esclusione dal dominio politico. Fu
questa una delle tante cause che mi portarono a battermi sulla necessità della
presenza delle donne in politica e sul loro riconoscimento formale e
sostanziale nei diversi ambiti pubblici sia istituzionali, sia lavorativi. Incominciò
a farsi sempre più strada in me l’idea di una giustizia sociale che potesse
portare ad un reale cambiamento delle condizioni di sfruttamento in cui si
trovavano a vivere lavoratori e lavoratrici. Erano vittime soprattutto le donne
che non erano riconosciute come cittadine a pieno titolo e costrette ad una situazione
di sudditanza. Molti furono i miei interventi a tutela della condizione
femminile che continuarono incessantemente fino al 1914. L’acquisizione dei loro
diritti politici e civili, il riconoscimento degli esclusi dal regno della
politica istituzionale, partitica e sociale, diventarono i miei campi di
battaglia. Mossi una critica sociale inflessibile dal pubblico al privato e
viceversa: critica di classe, critica inter-femminile, critica di genere,
critica politica, critica familiare. Quello che più mi aspettavo era un po’
meno intolleranza dagli uomini e un po’ più di solidarietà fra le donne. Le
donne dovranno imparare a bastare a se stesse, mi ripetevo, ma la donna
economicamente dipendente, avrà pur sempre un padrone. Ho spesso esortato le
donne a prendere la posizione che spettava loro nelle diverse funzioni, sono
stata sempre più convinta che l’emancipazione femminile non poteva essere che
opera della stessa donna. La libertà andava conquistata e sostanziata a tutti i
livelli di vita. Il mio pensiero era rivolto a promuovere l’emancipazione
femminile, partendo dalla consapevolizzazione del lavoro che le donne operaie
svolgevano rispetto a quelle industriali e artigiane che avevano conquistato
già quell’indipendenza economica di cui le borghesi abbienti erano spesso
sprovviste. Ero comunque sempre più convinta che le battaglie politiche
dovevano sempre prevedere la cooperazione fra donne e uomini, secondo la
prospettiva socialista della lotta contro il capitalismo e in vista della
costituzione di una società di eguali. Mi
ammalai. Alla tubercolosi polmonare rimediata nel carcere fiorentino di S.
Verdiana nel 1878, si aggiunse un’artrite deformante che prima mi aveva deformato le mani, a poco a poco mi aveva
attanagliata alle caviglie, poi mi aveva anchilosato le ginocchia, così che
quando venendo dal tinello attraversavo il salotto, parevo trascinarmi come una
rondine ferita. Proprio mentre il fascismo si affermava con tutta la
sua tracotanza, io mi spegnevo nel mio appartamento milanese. Nel dicembre del 1925, presentendo la mia fine imminente, confidai alla mia
amica Bianca Pittoni: non avrei mai
dovuto fare a Filippo il torto di morire prima di lui. Fra di noi era stato
amore a prima vista, per nulla ostacolato dal mio turbinoso passato
sentimentale e politico.
“Io rimasi senza parole. Anna era
bellissima, un’apparizione di luce, lei, a dire il vero, ebbe quasi voglia di
indietreggiare di fronte alla mia bruttezza faunesca” disse di me Filippo,
al nostro primo incontro. Io andai oltre
le sue fattezze fisiche, cogliendone le sue non comuni qualità spirituali. L’armonia tra la genialità e il cuore è così rara, e questo fu il dono raro
di Filippo per me. Fu proprio difficile anche morire. Quando mi sentii venir
meno e soffocare, volli baciare tutti i miei intimi, e mi spensi, senza un
sussulto, senza un brivido. Immensa la folla di persone che volle rendere
omaggio alla “dottora dei poveri”. Il dolore di Filippo per la mia morte fu straziante. La depressione e l’insonnia, di cui soffriva sin dalla giovinezza,
tornarono a tormentarlo. Gli amici di una vita, Treves, Gonzales, Omodeo,
Mondolfo, Tanzi, gli si strinsero attorno circondandolo con il loro affetto e
le loro cure. Quando alla sera rincasava nell’appartamento affacciato su Piazza
Duomo, che per decenni aveva condiviso con me, i pensieri più cupi lo
assalivano e lo tenevano sveglio sino all’alba. Neppure le mie esequie, celebrate il 31 dicembre 1925, furono
risparmiate dal tesissimo clima politico. Al cimitero monumentale, tra la gran
folla che seguiva il mio feretro ornato di viole e di garofani rossi, si
insinuarono gruppi di teppisti fascisti che aggredirono Riccardo Bauer e
Ferruccio Parri. Filippo fu costretto ad allontanarsi precipitosamente a bordo
di un taxi. Altri balordi strapparono i nastri delle corone esposte in Piazza
Duomo. Nei mesi successivi Filippo cercò di reagire al dolore e alla
solitudine, rituffandosi nell’attività politica e culturale, anche se ormai il
regime fascista si era consolidato, stritolando via, via ogni spazio di libertà.
Queste le parole che Pietro Nenni ebbe per me: «I
funerali erano stati un’apoteosi per lei e per il sopravvissuto suo compagno.
Ma, ai fascisti, anche l’omaggio reso a una donna insigne per sapere, preclara
per carattere, da tutti stimata per la bontà senza pari, era riuscito
intollerabile. Sui gradini stessi del Monumentale, mentre a mo’ di saluto io
gridavo “Viva il socialismo!”, fummo aggrediti. Attorno alla bara, attorno alle
corone e ai nastri, ci fu una zuffa breve e feroce dalla quale parecchi uscimmo
sanguinanti e pesti. Ed era triste pensare che ciò avvenne in un cimitero e
davanti alla salma di una donna che, con tutta la sua anima, con tutta la sua
intelligenza aveva auspicato pace, giustizia e fraternità». Il suffragio
universale, che ho difeso in tutte le mie battaglie come voto per tutti, uomini
e donne, senza distinzione alcuna di sesso o di classe, sarà introdotto in
Italia solo nel 1946, dopo venti anni di dittatura fascista e l’immane tragedia
della seconda guerra mondiale. Il mio ultimo pensiero va alle
donne: « O schiave, siate cittadine! O femmine, sappiate esser donne!»
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