Le brigantesse
Omme se nasce, brigante se more/ma fino all’ultimo aimme sparà/e si murimme menate nu fiore/è ‘na bestemmia pe stà libertà/è ‘na bestemmia pe stà libertà.
Lo zio di Benedetto Croce, Saverio Sipari, nel 1863 scrisse: “il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata.” I briganti non erano eroi romantici ma figure nate a seguito di un dramma sociale contrassegnato dall'odio di classe e dal rifiuto di riconoscere le ragioni profonde della loro rivolta scaturito dalla questione meridionale dopo l’Unità d’Italia. Massiccia la presenza delle donne al processo di ribellione del Mezzogiorno: donne briganti, donne “drude”, questo termine spregiativo le presenta come dedite al malaffare perché partecipi della ribellione del mondo contadino. Erano brigantesse, donne rivoluzionarie che hanno scritto un capitolo cruento ma significativo della storia del Mezzogiorno d’Italia. Donne che hanno condiviso il destino dei loro uomini, gareggiando in ardimento con loro e affiancandoli con coraggio, impugnando, nelle rivolte contadine dell’epoca, il fucile chiamato «scoppetta». Erano madri non più rassegnate o suddite che hanno ribaltato il ruolo stereotipo della donna meridionale dell’ottocento. Determinate, fautrici di azioni illecite e particolarmente violente, protagoniste anche di atti estremi di efferatezza, ribelli sia contro i soprusi baronali, sia contro la Guardia Nazionale, sia contro i propri coniugi o familiari. Donne capaci di comandare una banda, maneggiare armi da taglio e fuoco, prelevare riscatti; al servizio di delinquenti, assassine e “virago della malavita macchiaiuola: “chiamateci brigantesse e avete ragione, non dite assassine perché anche noi abbiamo sentimenti, ma abbiamo scelto questa vita montagna e dolore per difendere la nostra terra dall’invasore”. Ribelli, spietate e violente, le brigantesse, forse, hanno compiuto il primo passo verso quel processo di emancipazione femminile che tutt’ora non è ancora concluso. L’immagine che custodiamo di loro è quella di donne fiere, forti, audaci come i loro stessi uomini che sostenevano in battaglia, vestite in abiti maschili. Sono tante le storie di queste donne del sud denigrate e sconfessate dalle famiglie, private di ogni femminile grazia che hanno riversato, con spietata lucidità, odio e orrore sui propri nemici. Alcune di loro sono rimaste nella storia come Michelina Di Cesare, Filomena Pennacchio, Maria Oliverio, Luigia Cannalonga, Maria Rosa Marinelli, Maria Capitanio, Gioconda Marini, Mariannina Corfù, Chiara Nardi, Arcangela Cotugno, Elisabetta Blasucci, Teresa Ciminelli, Filomena Pennarulo, Luigina Vitale, Giovanna Tito, Maria Lucia Nella, Maria Consiglio, Filomena di Pote, Maria Orsola D’Acquisto, Carolina Casale, Maria Pelosi, Rosa Giuliani.
Una delle brigantesse più note è di certo l’irpina Filomena Pennacchio, la «regina delle selve», una
donna di grande fascino e dal
temperamento deciso, priva di scrupoli. Molto ammirata e rispettata dai suoi
commilitoni anche per la sua freddezza. A
21 anni era già una brigantessa temuta e rispettata. Figlia del
macellaio Giuseppe Pennacchio e di Vincenza Bucci; sin da piccola, per poter
incrementare i miseri guadagni della sua famiglia, fu costretta a lavorare come
sguattera presso alcuni notabili del suo paese. Si sposò giovanissima con un
impiegato di cancelleria del tribunale di Foggia, ma l’unione non fu delle più
felici a causa della gelosia del marito che la maltrattava. Stanca dei continui
soprusi, Filomena lo uccise conficcandogli in gola un lungo spillo d’argento.
Per evitare la galera fuggì nel bosco di Lucera, dove incontrò il brigante
Giuseppe Caruso e ne divenne l’amante. In seguito ebbe una fugace relazione con
Carmine Crocco, capo di tutte le bande del Vulture-Melfese e infine con il suo
subalterno Giuseppe Schiavone, con il quale il legame fu più duraturo. “Era bella, occhi scintillanti, chioma nera e cresputa, profilo greco." Fu un'intrepida
combattente ed una sanguinaria brigantessa. Seguì Schiavone
nelle sue imprese criminose fino al suo arresto: il 29 novembre
1864 nei pressi di Melfi (PZ). Fu catturata per la gelosia di Rosa Giuliani, precedente compagna del
brigante Schiavone, che denunciò il rifugio della banda. Schiavone fu
condannato a morte e fucilato dai militari italiani la mattina del 28
novembre 1864. Sola, gravida e distrutta per la perdita del compagno, la
brigantessa si arrese e collaborò con le autorità, contribuendo all’arresto di
Agostino Sacchitiello e della sua banda, delle sue amiche brigantesse Giuseppina
Vitale e Maria Giovanna Tito. Condotta davanti al tribunale di guerra di
Avellino, fu condannata a 20 anni di lavori forzati che vennero poi ridotti a 9
ed infine a 7. Dopo aver scontato la sua condanna, uscì di prigione e sposò,
nel 1883, Antonio Valperga, un facoltoso uomo di Torino, molto più giovane. Per
tutto il resto della sua vita si dedicò agli orfani, ai carcerati e ai poveri
e, per queste opere meritevoli, il parroco della parrocchia di Nostra Signora
delle Grazie (chiesa della Crocetta di Torino) fece sì che a Filomena Papa
Benedetto XV impartisse la benedizione papale. Filomena
Pennacchio morì il 17 febbraio 1915. La
brigantessa Maria Suriani ricamava i
suoi messaggi d’amore sui fazzoletti che mandava al Capitano Cannone; la lucana
di Ruvo del Monte Maria Giovanna Tito, detta “iena”, fu una vera sanguinaria: entrò
nella banda di Agostino Sacchetiello che contava 162 uomini e 60 cavalli. Maria Oliverio, detta Ciccilla, nota come
“la brigantessa delle brigantesse”, fu l’unica ad essere condannata a morte, mediante
fucilazione alla schiena, dal Tribunale Militare. Aveva un bel
volto solcato da un sorriso beffardo sotto il cappello alla calabrese, la
pistola alla cintura, la doppietta stretta tra le mani; i calabresi cantavano
di lei: “Lu cori comu na petra mpttu tinia”. Uccise la sorella a colpi d’ascia
quando scoprì che piaceva al marito e si diede alla macchia. Vestiti i
panni di uomo, si associò alla banda del marito, in Sila. Fu poi ritenuta
colpevole di tradimento. Sopravvissuta nel 1863 all’agguato di briganti traditori
nel quale suo marito Monaco fu ucciso, preparò la catasta di legna per bruciare
il suo corpo, come da codice brigantesco e guidò la banda per altri 47 giorni,
fino alla resa. Nel 1868,
a Cosenza, la 21enne Generosa Cardamone,
druda di Pietro Bianco, venne incarcerata malgrado l’avanzato stato di
gravidanza; Maria Brigida morì
dissanguata la notte del 12 luglio 1869 nello scontro a fuoco nel quale venne
catturato il 38enne Domenico Strafaci, bracciante di Longobucco, che si ribellava
alle vessazioni di un signorotto di Rossano Calabro, uno dei briganti più
famosi della Sila. Michelina Di Cesare incontra e segue Francesco Guerra, ex
sergente dell’esercito borbonico al quale gli rimarrà fedele fino alla morte;
entrambi verranno catturati presso il Monte Morrone, nel casertano, e uccisi
nell’agguato stesso. “…appena scortili,
con un salto fu addosso a quei due ed afferratone uno pel collo, lo stramazza
al suolo e con lui viene ad una lotta corpo a corpo, finché venne dato ad un
soldato di appuntare il suo fucile contro il brigante e di renderlo cadavere.
[…]. Quel brigante fu subito riconosciuto pel capobanda Francesco Guerra, ed il
compagno che con lui s’intratteneva, appena visto l’attacco, tentò di fuggire;
una fucilata sparatagli dietro dal medico di Battaglione Pitzorno lo feriva, ma
non al punto di farlo cadere, che continuando invece la sua fuga, s’imbatteva
poi in altri soldati per opera dei quali venne freddato. Esaminatone il corpo,
fu riconosciuto per donna e quindi per Michelina De Cesare druda del Guerra.»
(V. Romano,
Brigantesse, pp. 100-101). I loro
corpi furono esposti il giorno successivo come monito per la popolazione. Carlo Levi dirà che il “Il brigantaggio non è che un eccesso di eroica follia: un desiderio di
morte, e di distruzione, senza speranza di vittoria”.
Antonetta Carrabs
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