Giovanni Raiberti, il medico poeta di Monza
C’è una lapide sul muro
del vecchio ospedale di Monza che recita: Giovanni
Raiberti direttore di questo nosocomio. Al medico poeta che il romano e vetusto
Orazio fece milanese e contemporaneo e coll’aculeo del carme vernacolo e d’una
prosa originale corresse i costumi ed aiutò gli intenti dell’arte salutare
apprestando agli spiriti il farmaco della sapiente giovialità. La vedova
Giuseppina Bolgeri legava un letto per cronico a perenne memoria del marito n.
nel 1805 in Milano e m. in Monza nel 1861.
L’opinione
pubblica non si persuaderà mai che medico e poeta stiano ben d’accordo – andava
ripetendo- parmi ad ogni sestina che scrivo veder disertare un
ammalato: o meglio parmi, che come la vezzosa siringa si converse in canna e il
bel Giacinto in tulipano, così i miei malati si trasformino ad uno ad uno in
altrettante sestine…..se mai è destino che al mio nome sia cucito il mal
auguroso predicfito di poeta sappiate almeno, lettori, che io sono poeta medico
o meglio medico-poeta.
Milanese, di origini
modeste, nacque il 18 aprile del 1805 nella contrada dei Fiori Chiari al n.
1915. Compiuto il corso degli studi in seminario e, lasciato l’abito ecclesiastico,
decise di studiare medicina all’università di Pavia, conseguendo la laurea nel
1830. Nel 1842 si trasferì a Monza dove ricoprì il ruolo di direttore
dell’ospedale civico monzese. A lui è dedicata la scuola primaria Giovanni
Raiberti di Monza, nella via che porta anche il suo nome. Le sue opere sono
giudicate, ancora oggi, esempi pregevoli
di gustoso e onesto umorismo italiano: il Convitare, il Gatto, Il viaggio
di un ignorante. Nei versi meneghini del
Marzo 1948, dopo la cacciata degli austriaci, l’esclamazione di tutti fu : pare un sogno! Sicchè l’è vera o hin ball?
Raiberti racconta la
gente di Milano senza distinzion/de
pitocch, sciori o nobil che insorge contro il nemico despota forestiero. Non sale sulle barricate ma, alle Cinque
giornate darà, comunque, il suo bel contributo aggiustando, tagliando,
stagnando e cucendo feriti e moribondi: e
sont staa all'ospedaa squas tutt el dì/a giusta, resegà, stagna, cusí. Pur
senza aver combattuto in prima fila, il Raiberti fu sempre liberale, fra i
liberali. Per alcuni suoi versi, declamati durante una cena offerta in onore di
Gioachino Rossini e, successivamente dati alle stampe dove chiamava l'Italia povera Donna strapazzada,/serva strasciada
che la perd i tocchi, fu vittima di noie giudiziarie. L'atto di accusa
della polizia austriaca lo definì sprezzantemente ribelle e traditore del Sovrano,
di cui mangia il pane. E a proposito
di Rossini, a chi gli chiedeva cosa avesse da dire sul grande musicista, di
lui, rispondeva: cosa ho da dire? On
trasà fina el beli perché l’è tropp,/e butta in d’on spartii tanti motiv/ che
on alter ghe n’ha a sbacch per fin ch’el scriv. ..el cava tutt del so
cervell:/ per Lii, vers brutt, vers bej, l’è tutt egual:/ lù no gh’è mai nagott
ch’el le scanchina:/ libritt d’inferno, musica divina!...la sua gloria/ l’è
gloria che capiss tutta la gent…l’è on quart de secol che l’è in bocca al mond.
Non esiste oggi un linguaggio che abbia la forza
della poesia. La poesia invece ce l’ha perché non può sopportare l’ingiustizia
del mondo. Ogni atto di ribellione è già poesia, un semplice NO è un verso di
poesia. E’ una strana lingua, la poesia; non è più prosa e non è ancora musica
e, in mezzo alla musica e alla prosa, c’è una potenza terribile.
Commenti
Posta un commento