Nessuna donna più
Ieri Artemisia oggi Anna, Roberta, Francesca, Federica……sono le storie di tante donne,
mogli, o ex mogli, sorelle, figlie, fidanzate, ex fidanzate che non sono state
ai patti, che hanno disubbidito o che si sono ribellate. Sono storie comuni, di
quelle che la cronaca nera chiama delitti passionali. Sono storie di morti
annunciate che nessuno è riuscito ad arginare; sono casi giudiziari che a volte
sono riposti nei cassetti dei cosiddetti raptus di follia. Questa iniziativa richiama
un dramma antico che ha visto, a partire da Artemisia Lomi Gentileschi, tante
altre donne vittime di violenza da parte degli uomini che sono diventati i loro
orchi, i mostri, pronti anche ad uccidere. La maggior parte delle vittime non
ce la fa a denunciare il proprio aguzzino per paura, per le possibili
ripercussioni, per vergogna, per non ammettere il fallimento del proprio
matrimonio, per preservare i figli.
La storia di Amelia è la storia di una donna qualunque che, come tante
altre donne, ha subito la violenza domestica e ha avuto il coraggio di
denunciare il proprio compagno di vita. Ho raccolto il suo urlo silenzioso
affinchè possa raggiungere i cuori di tutte quelle donne che si sono arrese
alla violenza per paura, per bisogno di sopravvivenza, per rassegnazione.
A tutte voi dico: DENUNCIATE! Non permettete a nessuno di farvi del male.
MAI.
Nessuna donna più
di Antonetta Carrabs
Sono
vittima di violenza domestica da alcuni anni. Il mio ex compagno, dopo un
periodo di cassaintegrazione, ha perso il lavoro. L’azienda ha chiuso per
aprire in Romania e la situazione in casa non è stata più la stessa. Dietro un
paio di lenti scure, la mia verità. Ho ancora davanti l’immagine dei miei occhi
gonfi e il suo pugno ancora incastrato sugli occhi. Cammini
leggera cercando di nascondere al mondo il tuo dramma, ma il sangue pulsa
sempre più forte dentro le tue arterie. Gli altri non vedono. Gli altri non
devono vedere e basta. Devi sopravvivere. Sono arrivata a pesare quasi 40 kg,
signor giudice, per colpa delle continue violenze che ero costretta a subire.
Aveva incominciato a bere. Sono di colpo
precipitata in un girone infernale. La mia vita prima era normale, signor
giudice. Una vita qualunque come tante altre. Una famiglia modesta, un marito,
due splendidi bambini, una casa decorosa, un lavoro da commessa in un
supermercato. Poi un giorno tutto precipita. La mia spina dorsale disegna ancora
grani di rosario sotto la pelle. Questo corpo così sottile mi ha impedito per
lunghi mesi di ribellarmi a questa persona che oggi è qui in aula, seduta alle
mie spalle. Questa persona un tempo era il mio compagno di vita, la persona che
avevo deciso di amare.
Oggi non
voglio neanche incrociare il suo sguardo. Dai demoni si fugge. Ho sempre
nascosto le botte. Le scuse erano tante, la più banale funzionava sempre: sono caduta dalle scale, ho sbattuto contro
l’antina dell’armadietto. Nessuno si è accorto di me, o forse hanno
preferito non vedere, non chiedere nulla. Tante sono state le volte in cui ho
dovuto nascondere il mio dolore e la mia rabbia sotto un paio di occhiali scuri
perché gli schiaffi, se sono forti, lasciano lividi violacei sulle guance. Se sono qui è perché guardando i miei bambini mi sono resa
conto che non c’era più nessun motivo per avere paura. Ho visto in faccia la
libertà… da lui, dalle sofferenze, dalla rabbia. Incassare colpi in faccia col
tempo ti indebolisce, e così tutte le volte che mi maltrattava e mollava la
presa dai mei capelli io cadevo con la schiena contro il muro. Indurivo lo
stomaco per paura di ricevere qualche altro pugno in pancia. Negli
ultimi due anni il mio ex compagno aveva perso il lavoro e questo l’aveva reso
nervoso e in preda ad attacchi di ira. Le serate trascorse al bar erano un
incubo per me perché sapevo che ritornava sempre ubriaco ed ogni piccola
insignificante scusa era buona per attaccare lite. Quando
senti che la chiave ha fatto l’ultimo giro nella toppa trattieni il respiro
nella speranza di vederlo rientrare sobrio. Ma lui ha ancora bevuto. L’alito
puzza di vino, o di birra o di alcol, poco importa di cosa. Ha le pupille
dilatate, barcolla nei movimenti. E allora pensi: meno male che i bambini sono
già a letto e non possono sentire. Non urlo per non farli svegliare. Quante
volte ho trattenuto la rabbia serrando così forte le labbra fino a farle sanguinare! In questi ultimi
mesi la situazione è diventata ancora più difficile, le spese in casa purtroppo
c’erano e solo con il mio lavoro di commessa non riuscivamo a sbarcare il
lunario.
Un giorno, per un futile motivo, si è arrabbiato tanto da
sferrarmi un pugno così violento da rompermi una costola. Non potevo
permettermi di stare a casa, signor giudice. Mi sono imbottita di
antidolorifici e sono andata a lavorare lo stesso. Non riuscivo a stare in
piedi, non riuscivo a respirare bene. Ricordo di essere rientrata a casa prima.
E tutte le volte il solito rituale: scuse e promesse. Ma tanto sapevo che
sarebbe stato tutto inutile. Quella sera aveva
bevuto più del solito. Il bambino più piccolo non riusciva ad addormentarsi e
piangeva di continuo. Io non riuscivo a farlo smettere. Ci ho provato in mille
modi ma niente, Il pianto non si arrestava. E lui ha incominciato ad
arrabbiarsi. Mi ha urlato addosso di tutto. Ricordo che mi ha battuta come si
fa con un sacco. E’ da
così tanto tempo che non ricordo più cos’è la vita senza ferite da curare o
emozioni da nascondere. Ho sopportato questo calvario di violenze per tanto
tempo perché non vedevo una via d’uscita. E ogni volta mi illudevo che sarebbe
andata meglio, che le cose sarebbero cambiate, che lui sarebbe cambiato. Dovevo resistere, dovevo farlo per i miei figli. Mi
illudevo, si, mi illudevo tutte le volte. Il giorno dopo, come sempre, lui non
ricorda più nulla. E’ gentile,
premuroso, mi chiede sempre scusa, mi promette che sarebbe cambiato, che non
avrebbe più bevuto. Ma la realtà ritorna sempre
puntuale. Sempre la stessa. Ho avuto il coraggio di ribellarmi quando ha incominciato ad
alzare le mani sui bambini. No, signor giudice, i bambini, no! Ai suoi occhi io apparivo debole, impotente, ed era vero
perché nelle mura della mia casa io non vedevo più finestre né porte. Ero
prigioniera. Prigioniera di me e della mia vita. Trovavo sempre una motivazione
per restare e non andarmene via. E allora lo perdoni e attribuisci all’alcool
tutte le colpe. Lo scagioni. Ho ancora nelle
narici l’odore rancido delle sue tante sbornie. In quei casi non c’erano vie
d’uscita e allora restavi lì, cercando di schivare il più possibile i suoi pugni.
E, per soffocare la rabbia, tutte le volte che le prendevo mi rannicchiavo in
un angolo e cercavo di sopravvivere alla violenza. Cercavo di sopravvivere per
i miei bambini. Quante
volte la rabbia mi ha preso a morsi e mi è montata dentro! Ma poi andavo
incontro al mostro e cercavo di buttarmi alle spalle le violenze del giorno
prima. Non ho mai sporto denuncia fino a quando non ce l’ho più fatta signor giudice. Un giorno la rabbia
mi è arrivata alla testa. Il suo sguardo mi aveva spaventato più delle botte.
Mi ha strattonato, mi ha fatto cadere. Ho incominciato a sanguinare. Ovunque mi
girassi sanguinavo.
Le opere sono dell'artista Maria Micozzi
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