Il “Sogno” italiano di XHAKOSI SHPETIM, detto Timi.
Quella di XHAKOSI
SHPETIM, detto Timi, è una storia di immigrazione e di successo che parte dalla
terra balcanica ferita da troppi anni di dittatura. E’ il 20 febbraio 1991, la
statua del dittatore Enver Hoxha, l'enorme
simulacro in bronzo che dominava la capitale albanese dal centro di Piazza
Skanderbeg, viene abbattuta da una folla immensa. Questa data segnerà la rottura con il passato e l’inizio di una nuova era
per il Paese ormai impoverito, malnutrito, spaventato. Incontro Timi a Finale Ligure, nel suo ristorante Il Sogno. Il racconto è pacato ma i suoi occhi mi dicono di più. In quello
sguardo fiero ho percepito la vera passione di chi ama il proprio lavoro. “Il mio Paese ha vissuto un’era di grande oppressione:
non avevamo nulla, anche il cibo era razionato. Nel ‘91, quando il popolo
albanese finalmente si ribella al regime, frequentavo il terzo ginnasio. Avevo
deciso di andare via, il mio futuro era l’Italia. Durante i primi giorni di
marzo di quell’anno, fiumi di persone raggiungono il porto di Durazzo, la mia
città, per imbarcarsi alla volta dell’Italia. La polizia non impedisce le
partenze, al massimo spara qualche colpo in aria. Il 3 marzo mio fratello
riesce a partire con un piccolo peschereccio di 30 persone. La città incomincia
a svuotarsi, restano vecchi e bambini. Io ero l’unico maschio rimasto in casa.
Mia madre non vuole che io parta ma alla fine si convince e mi lascia andare: “Vai,
figlio mio e che Dio ti benedica!” E’ il 6 marzo. A soli diciassette anni mi
imbarco con la LIRIA, che vuol dire libertà, una nave grandissima con a bordo 5000
persone. Dopo quasi 24 ore di navigazione, sfiniti dalla fatica del viaggio,
arriviamo nel porto di Brindisi. Ci fanno sbarcare tutti. Restiamo sulla rada
per tre giorni. Di quei giorni ricordo
ancora adesso lo scricchiolio della bottiglia di plastica che mi ha fatto da cuscino
per la notte.
Dopo il terzo giorno trascorso all’aperto, veniamo ospitati nella
palestra di una scuola. Ricordo tanta, ma tanta solidarietà sia da parte della
Croce Rossa, sia degli abitanti di Brindisi. Veniamo divisi e smistati: la mia destinazione
è Savona. Ero felice, andavo al Nord, in Liguria. Parto in treno con altre 1000
persone alla volta del Ponente. Veniamo fatti alloggiare in una vecchia caserma
dismessa, la Blignì. Il 15 marzo otteniamo il permesso di soggiorno, il
libretto di lavoro e 10mila lire alla settimana per le nostre necessità: io li
spendevo per acquistare libri e giornali. Cercavo di imparare la lingua in fretta
per poter trovare subito un lavoro. Ricordo che dal giornalaio compravo spesso Gli
Affari, ma non sapendo leggere andavo alla Caritas per farmi aiutare. Trovo
finalmente lavoro come lavapiatti in un ristorante, ad Albissola. Quante sere
ho fatto a piedi chilometri di strada per tornare a casa! Il proprietario
decide di aiutarmi e mi ospita nella sua casa di Stella San Giovanni per la
notte. Nel frattempo mi raggiunge mio fratello più grande che prende il mio
posto mentre io incomincio a fare il pizzaiolo. A settembre cambio posto di lavoro,
vado in un altro ristorante poco distante. Non ho la possibilità di pagare
l’affitto e, con l’aiuto dei servizi sociali, per un periodo dormo in una casa
di riposo per anziani. Lavoravo 18 ore al giorno per 500mila lire al mese. Non
ero retribuito abbastanza per la mole di lavoro che facevo e così, dopo qualche
mese, vado a lavorare in un altro ristorante poco lontano. Faccio sempre il
pizzaiolo. Un giorno il proprietario mi dà la possibilità di lavorare in cucina
con sua moglie. Quell’esperienza sarà per me la svolta della mia vita: capisco
di avere una grande passione per la cucina. Dopo 5 anni arriverò a guadagnare 2
milioni e duecentomila lire al mese. Sentivo che non ero ancora pronto. Ero convinto
che cambiando posto di lavoro frequentemente avrei imparato di più: cambierò
ben 13 posti di lavoro in pochi mesi. In Albania avevo lasciato l’amore. Avevo
incontrato Flora nel ’90, lei aveva 13 anni e io 16. Ci siamo scritti tante lettere
d’amore, gliele spedivo a casa di mia madre, poi ci pensava mia sorella a
fargliele avere. Quando andava bene ci sentivamo al telefono, non più di due
volte al mese. Nel ‘92 torno in Albania. Ho 18 anni e mi fidanzo ufficialmente
con Flora.
Ci sposiamo civilmente nel ’96 così Flora può raggiungermi per ricongiungimento
familiare. È gennaio quando arriva ad Albissola. Ero felice! Incomincia la
nostra vita in due in un monolocale in affitto. Flora fa la baby sitter alle
bambine del proprietario del ristorante. Nel 2001 nasce Irina, la nostra prima
figlia e nel 2004 decidiamo di aprire la nostra prima attività a Borgio Verezzi.
Sarà Lucia ad aiutarci, la signora che avevo conosciuto a Savona nel ‘91.
Allora si occupava della raccolta dei vestiti da destinare a noi immigrati. Io non
le ho mai chiesto vestiti ma libri. Lucia mi ospita a casa sua, mi adotta. Da
allora non ci siamo mai più persi di vista. Sarà lei, nostra socia, a metterci
il capitale per l’avvio della nostra attività che decidiamo di chiamare IL
SOGNO. Quel ristorante sarà la mia, la nostra vita. Cerco fin dal principio di
offrire ai nostri clienti la massima qualità: vado a comprare il pesce
direttamente dai pescatori, curo la scelta dei vini, miglioro il servizio. Arrivano
i primi successi. Nel 2010 decidiamo di spostarci in un luogo più grande e
apriamo a Finale Ligure il nostro nuovo ristorante grazie ad un finanziamento della
Regione Liguria. Avevamo un bel giardino
e tutto sembrava funzionare al meglio. Poi arriva la crisi. Rischiamo di
chiudere.
Viviamo momenti di forte preoccupazione. Mia moglie Flora, per aiutarmi a pagare
l’affitto, torna a lavorare in albergo. Con la tenacia e la grande passione per
il mio lavoro, riusciamo a superare le difficoltà. Dal 2012 la situazione
migliora. Oggi siamo in via Roma, sempre a Finale Ligure. “Il Sogno” è il mio
sogno italiano che si è avverato.” Timi ce l’ha fatta. La sua storia è una bella storia di inclusione.
Art. pubblicato sulla rivista nazionale VOI
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