Chi sono i poeti dialettali?
Ma i poeti dialettali di oggi, o i cosiddetti neodialettali, come qualcuno li chiama, chi sono? Penso che non esistano più periferie culturali che confinino il dire poetico dialettale a esclusivo patrimonio locale. Il dialetto, ora più che mai, assume un valore culturale da salvaguardare perché rappresenta la lingua della realtà, capace di essere anche parola di poesia. Una scrittura diversa, portatrice di valori contadini, di quelle entità mal parlanti e non scriventi e dei loro conflitti tra alto e basso. La vera poesia dialettale custodisce la narrazione del limite e si lega alla storia con il suo significato estetico, intriso di armonie e di suoni, nella loro unicità. Il poeta dialettale può assumere un ruolo importante nella letteratura e nella vita delle comunità perché può essere in grado di operare quella ricomposizione sociale, appropriandosi della memoria storica del dolore e dando voce a chi ha sofferto la storia. Pensiamo per esempio al romanzo orale della poesia occidentale, il Roman de la rose, all’universo meraviglioso di quel giardino concluso dove avvenivano operazioni elette e bellissime mentre all’esterno viveva il regno di villania con i muli, i non parlanti, i contadini, i reietti. Il poeta dialettale ha un compito alto: può operare sulla ricomposizione sociale, nella riconciliazione con il mondo e favorire, così, quel dialogo tra l'alto e il basso. E’ anche questo l’impegno della poesia dialettale «non parlar la parola ma la cosa» (Pasolini): risvegliare nelle persone quell’azione morale, fisica, psicologica, ideologica che possa contribuire a rendere migliore il vivere comune.
Quattro
poeti nei quali arde una fede irriducibile nella vita, nella luce
e nella bellezza concorrono con i loro versi a creare questo splendido florilegio dedicato alla rosa,
ognuno con il proprio timbro e la
propria voce dialettale ben
riconoscibile.
In
L’acquazzina (La rugiada) di Nino De Vita, componimento in dialetto siciliano, il
poeta si ritrae alla finestra mentre
all’alba osserva le sue rose: un’immagine delicata e piena di grazia per
parlarci della propria vocazione e più in
generale del senso profondo di ogni fare
poetico. De Vita sa che custodire il
mondo significa non perdere mai di vista“il giardino delle rose” in cui vige “l’ordine
universale” che nessun vento e tempesta potrà mai distruggere. Come l’esile
bocciolo che racchiude l’essenza sacra della vita, ora un poco chino sotto il
peso della rugiada, si schiuderà al primo sole, facendo dono del suo profumo e
della sua bellezza, così il poeta è chiamato a restituirci una parola che
ancora conservi il seme ardente della speranza, senza lasciarsi travolgere dal
peso della storia e del dolore.
All’utilità della rosa e alla sua
bellezza è dedicato il testo Rösa (Rosa) di Davide Ferrari, scritto in
dialetto pavese. Attraverso una lingua che è un impasto di odori, colori e
sapori, palpitante di terra e sudore, il poeta ci riporta indietro nel tempo,
in quel contesto contadino dell’ Oltrepò Pavese da cui proviene la sua famiglia
paterna. Il componimento ci ricorda un’antica tecnica per salvaguardare
l’integrità della vigna, che consisteva nel piantare all’inizio del filare una
rosa che fungeva da vera e propria sentinella o “pianta spia”. La rosa infatti
oltre a subire per prima l’effetto di carenze minerali manifestava anche i
primi sintomi di eventuali parassiti, ragni, funghi e muffe che la portavano a
consumarsi. Un sacrificio necessario che coincide con il desiderio del poeta di
farsi a sua volta custode e sentinella, di lasciarsi sfogliare come la rosa,
così che il profumo diventi un “fiato”. Uno slancio che nel finale si fonde con
un senso di finitezza acuito dallo scontro fra la bellezza lancinante del
fiore, il suo disfacimento e il suo disperdersi inutilmente come il vento.
Raccoglie il dolore di un’umanità sofferente la poesia Chel zhigo ross (Quel grido
rosso) di Fabio Franzin, scritta
in dialetto Veneto-Trevigiano, una lingua concreta, segnata dagli urti della
vita, dal duro lavoro in fabbrica.
Una poesia civile che raccoglie
la voce di chi voce non ha e ci costringe a puntare lo sguardo verso una realtà
di immigrazione e povertà, ma anche di abbandono e bisogno disperato di
un Dio. Il poeta, però, che non cede alla disperazione e non si arrende
all’inquietudine dell’ombra, sa snidare nel suo magma quei semi di luce e
colore che vi si nascondono. E così nel finale del componimento le rose, sparse
ai piedi del venditore filippino a comporre un tappeto di spine e di carne, si
ricompongono in un grido lancinante di bellezza e amore, come un mazzo, rosso,
lanciato verso il cielo.
Tra i rös d’un bel giardin se scund la sera (Tra le rose di un bel giardino si nasconde la sera) scrive Franco Loi nel suo dialetto che è un impasto linguistico in cui il milanese si mescola ad altri gerghi e al latino, sorprendendoci in questo componimento per i timbri chiari, freschi, pieni di grazia. Poeta in viaggio nelle luci e ombre dell’esistenza, nel mistero dell’amore e della morte, Loi passando accanto al “bel giardino” si sforza di capire, per sfondare i limiti dell’apparenza e cogliere il seme di una verità nascosta nel cuore della rosa e nel mistero delle sue infinite varietà. Solo col sopraggiungere dell’ombra e della quiete della sera, anticipazione di quella definitiva, il mondo si disegna nel suo consumarsi, e in questo sfarsi si compie, come «la rosa che nel morire fa crescere la vita». Ma proprio dopo aver acquisito questa consapevolezza, emerge nel poeta anche un desiderio di leggerezza, di libertà, per giocare con la rosa della vita, per lasciarsi cullare dal suo profumo, che lo raggiunge da lontano come il soffio della grazia rigenerante. - Antonetta Carrabs
Da Il Quaderno del roseto 1 a cura di Elisabetta Motta
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