AFFETTIVITA’ IN CARCERE di Emanuele Nitri
Con la sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 ai detenuti viene sancito il diritto a colloqui intimi con le o i partner della loro vita. Si tratta di una pronuncia spartiacque per il nitore con cui afferma il valore relazionale del principio di risocializzazione e il senso del limite che i diritti inviolabili impongono a qualsivoglia esigenza punitiva: un balzo avanti dell’Italia, che si avvicina ai 31 Paesi europei che già riconoscono il diritto alla libera esplicazione dell’affettività intramuraria. La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, la legge base sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. Per utilizzare le parole del giudice remittente, la pronuncia dell’Alta Corte configura e dichiara legittima “la possibilità di utilizzare il tempo del colloquio con il/la partner per rapporti intimi anche di tipo sessuale”.
Era stato il
magistrato di sorveglianza di Spoleto a sollevare la questione. In apertura del
suo provvedimento il giudice riportava precisamente i contorni della questione:
il detenuto “si lamenta delle modalità con le quali l’istituto penitenziario
gli consente di svolgere i previsti colloqui visivi con i familiari, tra i
quali la figlia minore e la compagna. Segnatamente, nel reclamo-istanza ci si
diffonde sulle conseguenze negative che l’assenza di intimità con la compagna
sta avendo sul mantenimento del suo rapporto di coppia, cui tiene
particolarmente e al quale considera legato il proprio futuro reinserimento
sociale”. Poche righe in cui c’è tutto: la prospettiva della persona detenuta,
costretta a subire l’amputazione di una dimensione essenziale della
personalità; la mortificazione del rapporto di coppia, ossia quella cellula
elementare di relazionalità da cui dovrebbe germinare il reinserimento sociale;
infine, la punizione di chi non ha commesso il reato, vale a dire la partner
(nel caso, era la compagna del detenuto) costretta a subire le conseguenze di
una responsabilità penale altrui. Su questo il magistrato di sorveglianza aveva
dunque costruito la questione di legittimità del terzo comma dell’art. 18 ord.
penit., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27,
terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo
in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo:
in un ambiente di per sé psicopatogeno come il carcere, la deprivazione
gratuita di una sfera essenziale della personalità, quale è quella
dell’affettività inclusa la sessualità, aumenta il pericolo di patologie
psichiche.
Il conflitto messo
in luce dal giudice, poi, è soprattutto con i principi di umanità e finalismo
rieducativo della pena, patrocinati dall’art. 27, terzo comma, Cost. Invece di
irrobustire il rapporto di coppia o familiare, nucleo fondamentale di ogni relazione
sociale, il divieto fa correre al detenuto il rischio di un futuro di maggior
solitudine e di spiccata insicurezza personale, correlata alla perdita del
proprio ruolo naturale all’interno della coppia. Insomma, da un lato il carcere
promette risocializzazione, dall’altro pratica desocializzazione.
Del resto, pur
nell’inerzia sostanziale del legislatore nazionale, alcuni passi avanti erano
stati fatti: i commi 20 e 38 dell’art. 1 della legge 76 del 2016 hanno
parificato al coniuge, nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario, sia il
convivente di fatto sia la parte dell’unione civile tra persone dello stesso
sesso. Sul versante organizzativo e logistico, viceversa, una nuova
formulazione dell’art. 18 O.P. si era già arricchita di una disposizione nuova
sulla conformazione più idonea dei locali riservati ai colloqui. Dalle norme
sul contesto penitenziario minorile, inoltre, sono ricavabili utili parametri
organizzativi. L’accesso al beneficio dei permessi premio, che generalmente
vengono usati come “surrogato” per coltivare occasionalmente l’affettività
familiare e i rapporti di coppia, è di fatto discriminatorio, precisa la Corte,
in quanto è precluso non solo a chi non ha il requisito della regolarità della
condotta e/o ha invece quello della pericolosità sociale, ma anche a coloro i
quali non hanno espiato le quote di pena previste e, in via assoluta, ai
detenuti in attesa di giudizio. Già nel 2012, con la sentenza numero 301, la
Corte costituzionale aveva affrontato lo stesso tema sollecitando un intervento
del legislatore, però il Parlamento e i governi che si sono succeduti da allora
non han fatto nulla.
I giudici
costituzionali affrontano il merito della questione in modo frontale e senza
compromessi: “lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità
di esercizio” della libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto, “ma
non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata,
insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle
specifiche prospettive del suo rientro in società”. L’art. 18, terzo comma,
dell’ordinamento penitenziario, nell’imporre il controllo a vista dei colloqui
senza eccezioni – una vigilanza che “restringe lo spazio di espressione
dell’affettività, per la naturale intimità che questa presuppone, in ogni sua
manifestazione, non necessariamente sessuale” – scolpisce una prescrizione
assoluta che la espone “a un giudizio di irragionevolezza per difetto di
proporzionalità”.
La Corte,
nell’accertare la fondatezza della questione, ha inteso integrare la legge con
un principio al quale dovranno conformarsi il legislatore e il giudice nella
sua decisione concreta. Questa sentenza viene per l’appunto definita dai
giuristi “additiva di principio”: essa può e deve trovare applicazione a
partire da subito e tutti coloro che lavorano attorno al penitenziario, nella
propria sfera di competenza, devono lavorare per renderne possibile
l’esecuzione.
L’Italia si allinea
- almeno idealmente, ma anche operativamente, con la previsione di estensione
dell’effettività della pronuncia costituzionale ai casi individuali che via via
si presenteranno all’attenzione dei magistrati di sorveglianza - al più avanzato
status dei Paesi europei: solo per citare alcuni esempi, a settanta chilometri
a sud di Bastia, in Corsica, in mezzo a oltre millesettecento ettari di pineta,
frutteti, boschi, si trova il centro di detenzione di Casabianda, dove non ci
sono sbarre né torri di controllo, i detenuti sono tutti impegnati in qualche
genere di attività – pascolano ovini e suini, coltivano i campi, producono
olio, tagliano legna nei boschi – e possono ricevere le loro compagne diverse
volte nel corso dell’anno. Sull’isola di Palawan, a Iwahig, nelle Filippine,
c’è una fattoria penale che funziona come un’azienda agricola, nella quale i
detenuti possono lavorare e vivere in un alloggio con la propria famiglia.
All’ingresso un cartello dà il benvenuto: “Welcome”. Si chiama diritto
all’affettività e alla sessualità in albanese, austriaco, francese, norvegese…
Ma non in italiano.
Le associazioni che
lavorano con il carcere Due Palazzi di Padova hanno annunciato che partirà una
prima sperimentazione italiana per permettere incontri tra detenuti e i loro
partner in privato, senza controlli. Sulla questione è stato sentito il 21 febbraio
dalla Commissione Giustizia alla Camera anche Giovanni Russo, a capo del DAP,
il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Russo ha detto che
sull’affettività «intendiamo dare non piena ma, di più, una avanzata risposta
all’ordine specifico che la Corte Costituzionale ha dato, in attesa delle
valutazioni del legislatore, all’amministrazione penitenziaria», e ha aggiunto
che, vista la situazione, devono essere resi possibili colloqui privi di
controllo. «Io li chiamerei così, poi all’espressione sull’affettività
naturalmente ci si arriva però non è quello l’obiettivo principale».
Se si chiede, come
abbiamo avuto occasione di fare, ai diretti interessati, cioè i detenuti, qual
è il sentiment rispetto alla
questione su cui si è pronunciata la Corte, le risposte sono variegate: c’è chi
accoglie favorevolmente la possibilità di godere di momenti di intimità
affettiva con la propria partner, anche sessuale, e chi invece è assolutamente
non interessato, anzi contrario. C’è soprattutto la preoccupazione di non veder
ridicolizzato, svilito o addirittura offesa la necessità fisiologica della
sessualità e denigrato il bisogno psicologico all’affettività intima di coppia
e familiare. Servono luoghi appropriati, nella migliore delle ipotesi unità
abitative attrezzate dove sia possibile anche cucinare e consumare del cibo,
riproducendo ambienti di vita domestica. In questo senso alcune prassi
sperimentali sono realizzate nel carcere milanese di Opera. Gli incontri devono
potersi tenere in modo non sporadico, perché l’obiettivo è la conservazione di
relazioni stabili. Ci sono poi detenuti che, comprensibilmente, pongono
l’accento sulla questione di chi non ha una relazione: quale previsione si
potrebbe fare per costoro? Vero è che la Corte ha posto uno spartiacque tra
prima e dopo, conseguendo un risultato che sarà negli annali.
La sentenza entra
in rotta di collisione diretta con il principio per cui la pena debba essere,
oltre che privazione della libertà personale, incapacitazione dell’essere
umano, amputazione del suo corpo e dei suoi desideri. In questo senso, anche
per la limpidezza della motivazione, si tratta di una pronuncia che esprime un
reale controcanto ai quadri mentali dominanti, nell’opinione pubblica generale
e anche in quella specializzata. Nel collegare direttamente l’esercizio
dell’affettività con il finalismo rieducativo della pena, la sentenza scolpisce
il valore indiscutibilmente relazionale della risocializzazione. Un’opera tesa
a favorirla, dunque, non può cominciare a sottrarre i due baluardi fondamentali
della relazione: affettività e sessualità. Ricomporli, restituirli ai detenuti,
sarà proficuo per la società intera, che dopo il tempo della pena potrà
accogliere persone integre e più responsabili.
Da Oltre i Confini Beyond Borders inserto allegato a IL CITTADINO di Monza e Brianza
Emanuele ha riacquistato la sua libertà


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