CARLO PORTA nel bicentenario della morte
La Casa della Poesia di Monza, Il CRS il Centro di Ricerca e Studi Durini e il Circolo Filologico Milanese ricordano il secondo centenario della morte di Carlo Porta con un video che sarà reso visibile entro la seconda quindicina di gennaio sul canale Youtube: La Casa della Poesia di Monza. Regia e sceneggiatura di Ettore Radice.
Il 5
gennaio 2021 ricorre il secondo centenario della morte del poeta milanese Carlo
Porta, lo «charmant Carline» come lo definì Stendhal. Figlio
di Giuseppe e Violante Gottieri, nacque a Milano nel 1775, ultimo di tre
fratelli. Quando nel 1785 la madre muore
prematuramente, Carlo viene mandato in collegio a Monza dai Barnabiti; poi nel loro Collegio estivo di Muggiò (edificio in parte scomparso nel 1890 per
lasciare posto alla Parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo). Mostra
fin da subito una propensione per le discipline letterarie ma, questa sua
particolare attitudine viene fortemente avversata dal padre, funzionario del
governo austriaco, che sperava per il figlio un solido avvenire da burocrate.
Tra il 1789 e il 1799, soggiornerà a Venezia perché ottiene un impiego pubblico.
Rientrato a Milano, incomincia a frequentare gli ambienti culturalmente più
vivaci della città che, dopo l’allontanamento degli austriaci, avevano aderito
con fiducioso
ottimismo agli ideali liberali di Napoleone. Sposa Vincenza
Prevosti, figlia di un orefice e vedova del ministro delle finanze della
Cisalpina, Raffaele Arauco, ed inizia a lavorare per il Ministero del Tesoro. Nel 1816
pubblica la Prineide,
violenta satira antiaustriaca che gli causerà non pochi problemi con la polizia
ma non rinuncerà alla sua attività di poeta civilmente impegnato in senso liberale. Morirà
prematuramente. La sua opera poetica è ostile al
classicismo e ad ogni espressione aulica, ma è volta alla satira anticlericale con
un’attenzione amara e disincantata per il mondo popolare.
Tra le sue
opere vale la pena citare: I
desgrazi de Giovannin Bongee, El lament del Marchionn di gamb avert, El lava piatt del Meneghin ch’è mort.
Attraverso i
suoi umili personaggi denuncia il
malcostume della vita pubblica, la dilagante falsa religiosità e una
persistente ingiustizia sociale. Il dialetto diventa la sua vena espressiva, il mezzo attraverso
il quale dare vita alla sua satira
popolana, raccontando con goliardia il mondo spesso turpe, triste e
variegato dell’epoca, mettendo in risalto ritratti di preti, nobili e prostitute senza filtri e censure
in uno sforzo di realismo sapientemente
meditato. In difesa del dialetto e della sua scelta stilistica nel 1810
scrive I paroll d’on
lenguagg, in cui dichiara: I paroll d’on lenguagg hin ona tavolozza de color, che ponn fà el quader
brutt, e el ponn fà bell segond la maestria del pittor. Non ebbe il
successo riservato ai grandi poeti del primo Romanticismo italiano anche perché
il dialetto con cui si esprimeva non era comprensibile a tutti; diventa però popolarissimo a Milano costituendo un punto di
riferimento fondamentale per molti poeti milanesi, garibaldini o con sentimenti
repubblicani che condividevano la sua polemica, spesso violenta, contro il
clero.
Oggi la sua
opera è stata riscoperta ed apprezzata per il suo realismo e la capacità di aver reso un ritratto autentico del suo tempo attraverso
la lingua dialettale che, pur non colta, ci restituisce versi sapienti.
Carlo Porta si dichiarerà debitore
del Balestrieri che, nel Settecento, frequentò,
con Giuseppe Parini, il cenacolo dei Poeti e Letterati della Villa Mirabello di
Monza, e sarà per
lui una figura centrale riconoscendolo come suo maestro ideale;
inizierà infatti la sua carriera poetica, pubblicando nel 1792 un almanacco che
si intitolava El
Lava piatt del Meneghin ch’è mort. Meneghin era per l’appunto il
Balestrieri, morto nel 1780; Porta si qualifica come il suo lavapiatti, il suo
sguattero. Porta travestirà poi in milanese il canto primo
e frammenti di altri canti dell’Inferno dantesco:
e sceglierà la forma metrica dell’ottava (anziché la terzina), come omaggio
esplicito alla Gerusalemme del
Balestrieri.
Nell’anno di Dante La Casa della Poesia di Monza vuole ricordarlo con la sua traduzione del Canto 1 dell’Inferno.
Canto 1
Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant' è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte. Io non so ben ridir com' i' v'intrai, tant' era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto, là dove terminava quella valle che m'avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de' raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle. Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m'era durata la notte ch'i' passai con tanta pieta. E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l'acqua perigliosa e guata, così l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva. Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso……
Canto 1
A mitaa strada de quell gran viacc che femm a vun la voeulta al mond da là me sont trovaa in d’on bosch scur affacc, senza on sentee da podè seguità: domà a pensagh me senti a vegnì scacc, né l’è on bosch inscì fazzel de retrà, negher, vecc, pien de spin, sass, ingarbij pesc che né quell del barillot di strij. Quanto sia al cascià pussee spavent in tra el bosch e la mort gh’è pocch de rid, ma gh’eva anca el sò bon, vel cunti, attent. Com’abbia faa a trovamm in quell brutt sid, no savarev mò nanch tirall in ment: soo che andava e dormiva, e i coss polid in sto stat no je fan in suj festin squas nanca i sonador de viorin. Ma, quand sont vegnuu a coo de quella vall che la m’ha miss in coeur tanto spaghett, me troeuvi al pè d’on mont che sora i spall el gh’eva on farioeu d’or del pù s’cett ch’el fava starnudà domà a vardall: farioeu formaa daj ragg de quell pianett che s’ciariss tucc i strad e menna dritt tucc i vivent all’eccezion di orbitt. Allora m’è daa a loeugh on poo el folon ch’el m’eva strasciaa el coeur in quella nocc de spasem, de rottoeuri e de magon; e istess come on bagaj che in del fà locc el trà in ciapp ona tazza, o on quaj peston, e el schiva tant e tant de toeù sù i strocc, ch’el varda i ciapp e el pà cont ona ciera ch’el resparmi di strocc nol ghe par vera, stremii anca mì l’istess, e fors pussee, sbarloggiava quell bosch, quella vallada dove alla Mort che ghe fa de campee nessun prima de mì ghe l’ha friccada. Lì me setti on fregui stracch de stà in pee, e poeù rampeghi dopo ona fiadada sul mont desert, in moeud che me pertocca de tegnimm on genoeugg semper in bocca…..
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