Riflessioni sulla Poesia di Paolo Pezzaglia

 

La metrica è l’insieme delle leggi che regolano la composizione dei versi poetici”

Un esempio pratico: Tanto gentile e tanto onesta pare/la donna mia, quand’ella altrui saluta,/ch’ogne lingua devien, tremando, muta/e li occhi no l’ardiscon di guardare.

Non siamo di fronte a un testo in prosa, ma a una poesia. C’è infatti un ritmo particolare che in italiano veniva creato alternando, secondo un certo schema, le sillabe accentate, le sillabe non accentate e le rime a fine verso. Le regole che permettono di costruire il ritmo di una poesia e sono ciò che chiamiamo metrica. In latino il ritmo del verso non è prodotto dall’accentazione di alcune sillabe invece che di altre, ma dall’alternarsi di sillabe brevi e di sillabe lunghe. In sintesi l’essenziale è che ci sia un ritmo. Per trovarlo una volta si contavano i versi, si trovavano le rime: la cosa fu importante fin dal tempo dei poeti dell’alto medioevo, chiamati i Trovatori (trovatori di rime? di ritmi?). Seguirono Dante, Petrarca poi il Rinascimento con i noti magnifici risultati e l’arte dei poeti fu simile a quella dei pittori ecc. – gloria italiana, senza dimenticare i fiamminghi. Con il manierismo e il barocco la poesia proseguì con minore freschezza. Nell’Ottocento ci furono grandi poeti che proseguirono la precedente tradizione formale ma alla fine dell’Ottocento iniziò la rottura degli schemi, e con l’inizio del Novecento deflagrò: fu evidente sia in pittura sia nella più silenziosa arte della parola scritta. In poesia e anche in prosa (Joyce!). Ci fu la riscoperta della libertà espressiva, e la libertà portò inaspettatamente grande poesia, grande arte pittorica. In entrambi i casi la disarticolazione delle vecchie forme portò risultati fulminanti e anche eccessi disumanizzanti, lontani dal comune sentire del pubblico e di quelle persone (anche grandi come il Carducci) che rimanevano fedeli ai vecchi schemi. Ne ricordo cattivi esempi – le forzature di certi componimenti “rimati a forza”. Spesso fu anche la mancanza di adesione alla propria epoca. C’erano in giro ideologie esplosive che portarono a rivoluzioni e reazioni, e poi le guerre del Novecento. Ricordo che recentemente non riuscii a leggere in una occasione monzese l’ode alla Regina del Carducci…in occasione della fondazione del Parco letterario della Regina Margherita (che ha sede in Viale Cavriga nel nostro Parco). Per mio conto oggi illeggibile. Viva il verso libero, dunque, non ingabbiato dalle vecchie regole – ormai senza significato… da rigettare quindi nella libera creazione dei poeti del Novecento – per accogliere il verso libero che subito affascinò concretamente i poeti. Nella libertà si annida il non riuscito, il brutto – è naturale. Bisognava infatti, a costo di perdere l’espressione delle grandi emozioni della grande poesia ritrovando soprattutto l’antica necessaria armonia, difficile da raggiungere dopo tante, per me troppe, rivoluzioni. In mancanza dei vincoli delle regole di una volta bisognava trovare un ritmo vero che fosse anche l’espressione del proprio sentire. Aggiungerei umano sentire, con tutto quello che comporta la realtà storica del termine. Buon lavoro di un critico è, per me, soprattutto riconoscere il ritmo di ogni poeta – la componente ritmica essenziale di ogni bella poesia. Non amo come noto il “bruttismo” anche se spesso lo trovo in certo Picasso… Ma lì era la rottura di cui ho parlato prima. Mi rendo conto che non sia facile capire questa mia constatazione (ovviamente largamente condivisa da molti grandi poeti come i Mito-Modernisti, come il mio maestro Giuseppe Conte: fondamentale il loro motto “Fight for Beauty”– difficile da capire in certe mentalità schiavizzate dalla imperante ammirazione per la tecnologia – figlia della scienza che accieca i propri sostenitori: affermano la non esistenza di ciò che non è dimostrato scientificamente. E a me proprio non basta! Il bello della libertà è per me ritrovarla nel più profondo di sé stessi. Vi dico il mio modo, che io ho trovato nell’esperienza della saggezza nell’Oriente e più precisamente nella vitale arte della respirazione – ma molte sono le vie che possono fortunatamente ricondurci alla libertà, e quindi alla bellezza. Nella respirazione ci sono delle pause. Anche in musica – ci sono le battute, chiuse all’inizio e alla fine da trattini verticali, come dei piccoli recinti di suoni. E soprattutto il ritmo che regola ed espone l’emozione. Il ritmo che determina la durata del verso. È per me assimilato alla battuta musicale e lo regolo sul mio respiro. È il respiro del verso, che deve essere pronunciato nel modo più chiaro per un ipotetico pubblico che può essere una sola persona presente o assente, ma quasi sempre immaginata: così è quando si scrive. Che non solo così di getto ma ancora di più quando si riscrive, in un lavoro che è una fulminea creazione nei momenti più ispirati, assai rari più spesso seguiti da ripensamenti, arricchimenti e soprattutto benefici tagli. Una parola singola ha in sé il suo significato, ma spesso non è subito pienamente determinata; abbiamo bisogno di determinarla, a volte ci servono troppe altre parole. Meno sono meglio è: questo solo è arte per me. Troppe parole non completano in modo efficace quel significato che vogliamo esprimere e c’è bisogno di pause come nella respirazione. I significati quasi sempre sono molti in una poesia (salvo negli Haiku). Ci saranno così nuovi versi, nuove battute, pause (gli a capo!)  Per questo io (sto esprimendo il mio pensiero) quasi sempre manco di mettere una virgola in fondo a un verso: basta per andare a capo e fare un nuovo verso con gli stessi principi. Questo è ben lontano dal poter dire che la poesia moderna è solo prosa con degli “a capo a caso”. Sarà vero per alcuni o molti poeti cui spesso manca il giusto ritmo e quindi non possono pretendere di fare poesia, essa è bella per definizione solo quando è riuscita, e lì decide il pubblico, decidono i critici e anche in questo ci sarebbe spazio per molte discussioni.

- Paolo Pezzaglia Poeta e Scrittore milanese

 

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