MARIA LUISA SPAZIANI , la "volpe" di Montale
A Maria Luisa Spaziani è dedicata l'XI edizione monzese del Premio di poesia "Isabella Morra, il mio mal superbo" dopo Ada Negri.
E’ sicuramente definita una delle
personalità di rilievo del panorama letterario del XX secolo. Nasce a Torino il
7 dicembre 1924 in una famiglia borghese ed agiata e passerà la sua infanzia in
via Pesaro 24 nella cosiddetta “villa dei
ciliegi” acquistata dal padre, proprietario di un'azienda che produceva
macchinari dolciari. Grazie alle buone possibilità economiche della famiglia,
la giovane poetessa poté dedicarsi fin da subito agli studi letterari. All'età
di dodici anni scopre la figura di Giovanna d'Arco e ne rimane affascinata;
sarà un interesse talmente forte e profondo che sfocerà, nel lontano 90, nella
pubblicazione dell'omonimo poemetto in ottave. A soli diciannove anni fonda la
rivista letteraria “Il Girasole”5, che evolverà ne “Il Dado”6, ma non
parteciperà mai con scritti propri, non sentendosi poeticamente matura. Alla
rivista collaborano intellettuali di spicco come Sandro Penna, Umberto Saba e
Vasco Pratolini. Sono proprio gli anni in cui Maria Luisa Spaziani incomincia a
tessere sodalizi intellettuali (ricordiamo Emilio Cecchi, Mario Luzi, Leonardo
Sinisgalli, Ezra Pound) che ben presto muteranno in amicizie intense, aprendole
le porte verso il “mondo letterario”. Si laurea con Titolo in onore di Eugenio
Montale. Ebbe grande interesse per la letteratura francese nonché per la
Francia stessa, paese dove soggiornerà per lunghi periodi e che le donerà una
genuina ispirazione poetica.
Nel 1949 conosce Eugenio Montale al
termine della conferenza “Poeta suo malgrado” tenuta dal poeta stesso al teatro
Carignano di Torino. Questo incontro cambiò le loro vite, stando a quanto viene
affermato dalla poetessa stessa. Ricordiamo che Maria Luisa Spaziani fu una
delle muse di Montale e nella sezione della Bufera intitolata Madrigali privati possiamo scorgere una
descrizione inedita e poetica della Volpe (senhal che Montale attribuì alla
poetessa). Sono questi gli anni in cui incomincia la sua carriera poetica e
nascono i primi componimenti di una lunga serie.
Nel 1953 vince una borsa di studio
e va a Parigi: è il primo soggiorno nella capitale francese. Il padre non
voleva prendere sul serio l'inclinazione artistico-letteraria della figlia per
paura di grandi delusioni e più volte ripeteva che “mille ne partono e uno ne
arriva”. Decise tuttavia di assecondare il sogno di Maria Luisa e le consegnò
300.000 lire per pagare l'edizione delle poesie che ella decise di stampare
presso il tipografo Tallone, rinomato stampatore torinese. Durante il tragitto,
da casa alle poste, la poetessa cominciò a chiedersi perché mai non avesse provato
ad inviare prima la raccolta a Mondadori. E così, strada facendo, cambiò
l'indirizzo del pacco e lo inviò all'editore milanese senza raccomandata e
senza alcuna lettera di accompagnamento. Solo quindici giorni dopo le arriva
dall’editore la proposta di un contratto. La raccolta uscirà nel 1954 con il
titolo Le acque del Sabato, segnando
il suo esordio poetico. Nel 1962 esce, nuovamente presso Mondadori, Il gong. Tappa importante per la
produzione poetica sarà L'utilità della
memoria. (1966) L'occhio del ciclone
(1970) si apre all'insegna dei colori caldi del sud Italia: ci si trova
catapultati in una Sicilia soleggiata e in una Calabria brulla. Sono gli anni
in cui Maria Luisa Spaziani ottiene la cattedra di lingua e letteratura
francese all'Università di Messina e per 28 anni sarà pendolare da Roma. I
paesaggi nordici ritorneranno a far breccia nella sua poesia: Transito con catene (1977). Sarà con La geometria del disordine, uscito nel
1981, che la poetessa vincerà il premio Viareggio. Cinque anni dopo uscirà La stella del libero arbitrio, raccolta
che recupera i paesaggi del sud e il tema della madre scomparsa. Torri di vedetta (1992) e I fasti dell'ortica (1996): quest'ultima
vincerà ben cinque premi letterari e getterà luce su avvenimenti storici quanto
autobiografici. Nel 1999, a soli due anni di distanza, viene pubblicata La radice del mare, raccolta molto
interessante per la riflessione sul legame mare-musica-parola. Nel 2002 esce la
raccolta La traversata dell'oasi che
la Spaziani definirà “cuore del mio
cuore”, modo elegante e altamente metaforico per definire l'attaccamento
verso il libro di poesie d'amore e di vita. Se in questa raccolta poetica si
parla d’amore, in quella successiva, La
luna è già alta (2006), si contempla la dimensione del post-amore. Fonda, nel
1978, in onore dell'amico Eugenio Montale, l'Universitas Montaliana e, dopo
averne assunto la presidenza tra il 1981 e il 1982, istituisce il Premio
Montale. Seguirà l’insegnamento degli ermetici i quali affermavano che la
parola poetica non deve descrivere, bensì evocare. Maria Luisa Spaziani ebbe
sempre un occhio di riguardo verso gli ermetici fiorentini; ancora diciottenne
si reca a Firenze per osservare gli intellettuali che si riunivano al caffè Le
Giubbe Rosse in piazza della Repubblica: “vidi
per la prima volta Mario Luzi attraverso i vetri delle Giubbe Rosse. Non avrei
mai avuto il coraggio di entrare e pregai un cameriere di indicarmi,
dall'esterno, i poeti di Firenze. Il nome di Luzi lo conoscevo perché avevo al
liceo un professore geniale al quale devo pressoché tutto della mia prima
formazione letteraria. Si chiamava Vincenzo Ciaffi. È proprio grazie a questo grande maestro che,
credo per la prima volta in un liceo italiano, si siano fatti i nomi di
Montale, Sinisgalli, Penna e Luzi. Nei miei appunti di quelle lezioni Luzi
aveva due zeta. Mi limitai a stamparmi nella memoria i volti di quei giovani
fiorentini visti attraverso la nebbia dei vetri”. In questa breve e preziosa
testimonianza si coglie l'emozione di una giovane studentessa.
L'esordio
poetico: Le acque del sabato
Sere di
inverno
Sere di
inverno al mio paese antico
dove piomba il
falchetto dentro i pozzi d'aria
tra l'uno e
l'altro campanile.
Sere rapite a
un'onda di sambuchi invisibili
ai vetri dei
muretti d'ultimo sole accesi
dove indugia non so che gusto d'embrici e di
neve.
Vorrei
cogliervi tutte
o mie nel tempo ebbre
sfogliate voci lungo l'arida corona
dell'inverno
e ricomporvi in musica
parole sopra
uno stelo eterno.
M.L Spaziani, Le acque del Sabato
Le acque del Sabato raccoglie componimenti scritti dalla Spaziani tra i venticinque e i
trent'anni. Questa prima opera è fortemente legata ai luoghi d'infanzia, in
particolare alla “villetta dei ciliegi” e alla campagna astigiana (la madre era
nata a Mongardino d'Asti) che, non a caso, verrà definita dalla poetessa come “il
libro della mia preistoria”. Sono anni in cui la viaggia molto, nella raccolta
le poesie su Venezia, Edimburgo e Parigi. Fin dai suoi primi scritti emerge la
centralità della parola come strumento di verità, volta a cogliere la
concretezza della vita. La parola si lega al concetto di poesia come atto di
contemplazione, si avvicina alla
preghiera proprio nel momento in cui il poeta ricerca la solitudine. Maria
Luisa Spaziani viene candidata al Nobel per ben tre volte.
Ora scende il grigiore
Ora scende il grigiore in mezzo ai vicoli
che un liuto strazia e allarga oltre l'umano mio
tempo
arido ai ricordi.
E mattini ritornano leggeri
agili sui selciati di rugiada i nostri passi
i nostri lunghi indugi sugli eroi dell'Iliade.
O mattini
d'estate
che memoria del dolore gelosa in sé contrasta!
Un liuto sospirava una canzone
dietro le canne polverose.
Memoria-autunno-morte
biondo cerchio, sempre più oscurandoti mi stringi,
feroce amore.
Ricordo una stagione
Ricordo una stagione in mezzo a colli immensi
affaticata
dal soffiare della notturna tramontana.
Un gelso gemeva negli strappi
così alto
che talora il suo grido mi svegliava.
Ieri nel ritornarvi non sembrava passato altro che
un giorno.
La tramontana ci infuriava intorno.
Contro il cancello, intatta
era restata una mia antica rosa morsicata.
La poetessa ricorda i luoghi amati,
i colli colmi di una natura generosa mossa dal soffio della tramontana che
piega il gelso sofferente. La natura viene umanizzata: l'albero grida le urla
di dolore che destano l'Io lirico. A distanza di tempo nulla sembra essere
cambiato: al vento impetuoso resiste un’antica rosa “morsicata” forse simbolo della vita che continua nonostante
la sofferenza. La rosa è il fiore simbolo della bellezza e dell'eleganza ma anche
le cose belle possono portare con sé dei lati negativi, come la rosa che ha le
spine.
Polvere è anche cielo
Io piango lacrime di morte sulla casa che
invecchia
sul tetto della mia casa vuota di incantesimi.
Il ciliegio è solo un ciliegio
e più nessun amore mi attende oltre l'angolo della
strada.
Agosto smorza il verde con la polvere
e polvere è anche il cielo
io piango le mie lacrime
su questo deserto che anche l'ultimo angelo ha
tradito.
E’ la casa di famiglia la puntuale
presenza del ciliegio: la poetessa piange “lacrime
di morte sulla casa che invecchia, /sul tetto della mia casa vuota di
incantesimi. L'abitazione e i luoghi circostanti diventano un deserto,
simbolo dell'aridità e della sterilità, di un passato che se ne sta andando e
l'uomo non può far nulla per trattenerlo. Versi che appartengono alla
giovinezza.
La luna diventa una costante nella
sua poesia: viene quasi sempre associata alla luce, a una lampada, alle insegne
delle botteghe e dei caffè. Spadroneggia nella notte, si adagia sul sonno,
guida e illumina i vicoli. Sarà un elemento che ricorrerà anche nei Madrigali
privati di Montale a lei dedicati. Il ciliegio del cortile della casa materna
ritornerà a più riprese nella poesia della Spaziani.
Luna d'inverno
Luna d'inverno che dal melograno
per i vetri di casa filtri lentamente sui miei
sonni veloci,
di ladro,
sempre inseguito e sempre per partire.
Come un velo di lacrime t'appanna e presto l'ora
suonerà...
Lontano, oltre le nostre sponde,
oltre le magre stagioni che con moto di marea
mortalmente
stancandoci ci esaltano e ci umiliano
poi, splenderai lieta tu,
insegna d'oro all'ultima locanda,
lampada sopra il desco incorruttibile al cui
chiarore
ad uno ad uno i visi in cerchio rivedrò
che un turbine vuoto e crudele mi cancella.
Lontano dalla
casa la luna dirige le maree, le alza e le abbassa, è simbolo di tutti i
vissuti; diventa emblema della solitudine quando la poetessa si trova lontano
dalla sua patria, in una città fredda dalle tinte fosche non paragonabili alle
luci.
Contro il cielo che imbianca
solo un
cipresso e il campanile
e un roco
carosello di rondini s'imbruna.
Ma l'Italia è
lontana.
E questa è valle
e tempo e suono della luna.
La malinconia viene descritta in
modo diverso nel componimento Giudecca; la città di Venezia porta con sé un
alone di mistero e di attesa e la poetessa osserva i giochi d'acqua della
laguna e ascolta il canto lamentoso dei gondolieri che si inabissa nelle acque
scure. L'atmosfera è dominata dalla grande luna e forse il sole splende in un
altro luogo rigoglioso e proteso verso la vita.
Lontanissimo forse il sole splende
su voli in gloria di cicogne,
forse una bionda stagione i ricchi frutti per te
matura,
per te s'inghirlanda.
Io qui raccolgo i cerchi che la riva pigra
rimanda.
Sono la tua statua senza occhi né mani.
Quella storia che chiamano la vita avrà un senso
domani.
Intensa la descrizione che la
poetessa fa della luna vista come un foglio che si adagia sull'acqua, dove si
riflette e sembra “disfogliarsi”, mutare i suoi incerti contorni sulla laguna
che viene mossa dal passaggio di una gondola. Un componimento che sintetizza
molto bene il concetto della solitudine dove la poetessa si trova a colloquiare
con la luna nei giorni tristi, ma anche durante quelli intensi di felicità.
Nella nebbia dormiamo,
eppure la luna c'è,
se ne sta assorta e remota nei suoi feudi lontani.
Non vista comanderà nelle maree,
sui miei pensieri in alto intermittenti?
Con lei ho colloquiato in giorni di solitudine,
quando fra grigio e nero,
s'intrecciava il mio tempo.
Nemmeno quand'ero felice l'ho dimenticata,
e nei suoi mari senz'acqua saltavo,
delfino in amore.
Nella poesia 30 Giugno Milano viene rievocata con toni espressionistici ma
l'attenzione della poetessa è rivolta tutta verso la natura, l'erba, la luna e
la terra, il luogo dove ognuno di noi ritornerà al termine della propria vita.
30 Giugno
Bruciano e si consumano le stelle,
regna la Grande estate.
Passano dentro l'ombra dei balconi figure esauste
dagli occhi lucenti.
Grava sopra gli asfalti la polvere di Milano,
Al chiosco dei giornali i fogli gialli pendono
come bandiere disertate.
Morder l'erba vorrei.
Morire un poco (con te, senza di te)
contro la terra che aspra inonda di profumo anche
la luna piena
come quando (è certo) lunghe notti di grilli
inebriate
splenderanno di fuochi e di comete
sopra la cieca pietra che fu un giorno Maria
Luisa.
La figura materna ha un ruolo determinante nella
sfera affettiva della Spaziani.
Il paese di
mia madre
Alberi nudi dentro un tempo nudo sul cielo del paese di mia madre. Dove
s'ingorga l'acqua nei canali tra l'erba risecchita e la vite s'attorce nella
bruma con mani disperate. Gotico e lieve il colchico fiorisce -fiore
dell'elegia più lontana lungo la mia Sirmana, lento cielo d'inverno trascinato
verso nessuna foce. Battono radi uccelli il cielo del paese di mia madre.
Sostano a volte tra i pali delle vigne, o a sera in larghi cerchi sull'immenso
orizzonte di colli, nel silenzio di gelo che impietrisce anche la luna, incidono
nell'aria il grido inebriato.
La figura materna è sempre presente
e aleggia in quasi tutte le sue raccolte. Sicuramente si può affermare che la
madre è una figura di riferimento che ha accompagnato la poetessa in un cammino
di vita sia esistenziale, sia artistico. Nella prima raccolta Le acque del Sabato la figura materna
viene associata principalmente a Mongardino d'Asti, suo paese di nascita, che
viene descritto ora con toni nostalgici, ora con toni gioiosi. Il paese di mia madre fu scritto dalla
Spaziani intorno ai vent'anni e fu inserito nella raccolta come se fosse un
“talismano”. Questa dichiarazione denota l'attaccamento della poetessa alla
madre e a tutto ciò che le ricorda l'infanzia. “Sere di vento al mio paese antico, dove piomba il falchetto dentro i
pozzi d'aria, tra l'uno e l'altro campanile. Sere rapite a un'onda di sambuchi
invisibili, ai vetri dei muretti d'ultimo sole accesi, dove indugia non so che
gusto d'embrici e di neve. Vorrei cogliervi tutte, o mie nel tempo ebbre,
sfogliate voci lungo l'arida corona dell'inverno, e ricomporvi in musica,
parole sopra uno stelo eterno.”
Ne L'antica pazienza la prima dichiarazione dedicata alla madre dove
la poetessa ne descrive la sua delicatezza connaturata: Tu che conosci l'antica pazienza di scogliere ogni nodo della corda e
allevi un pioppo zingaro venuto a crescere nel coccio dei garofani, lascia
ch'io senta in te, come la sorda nenia del mare dentro la conchiglia, la voce
della casa che il perduto tempo ha ridotto in cenere. Ma è cenere il pane
scuro, sacro, -quello che alimentavi col tuo soffio, nel forno buio della
guerra- e reca imperitura in sé la filigrana dei tuoi ciliegi dilaniati.
L'allegria rialza la sua cresta di galletto sui borghi desolati, come il lillà
che ti cresce alle spalle passo a passo, baluardo sul massacro. Raccoglie
ancora e sempre il pigolante nido abbattuto dal vento di marzo e ripara le
falle della chiglia. Nessuno è senza casa se l'attende a sera la tua voce di
conchiglia. La figura materna sembra essere associata ad un marinaio che,
con grande calma, cerca di sciogliere i nodi delle corde, ma è anche una
conchiglia che amplifica le voci e rimanda il suono del mare.
Nella lirica Accanto ai vetri ritroviamo il motivo della luna, i suoi raggi
filtrano dalla finestra e portano un messaggio: avvertono che la presenza della
madre preme sul vetro ed è portatrice di parole che vengono paragonate a palle
da tennis con le quali la poetessa gioca.
Accanto ai vetri
È l'ora della luna,
il suo
raggio di latte mi avverte
che a premere ai vetri è mia madre,
non il solare piccione.
Viene a portarmi parole di puro silenzio
da fare impallidire i dizionari.
Le sue parole sono palle da tennis,
gioco che non sussiste senza il partner.
È vero. Ma io sto accanto ai vetri,
nelle sere di luna, ben disposta a giocare, a
giocare.
Nella lirica Mia madre viene descritto un momento di vita quotidiana segnato da
un’amara dolcezza. Il motivo centrale è la paura della perdita della persona
amata, la paura di non poterla rivedere e ancora peggio di non poterne sentire
la voce.
Mia madre
Le dicevo buonanotte al telefono.
Rispondeva un sussurro, buonanotte.
La sua voce staccata dal suo volto.
E a tradimento io la registravo.
Sapeva, la gentile, a cosa pensavo'
che un certo aprile era all'agguato,
che presto l'aspettava un chissà dove,
oltre la terra e il tempo.
Un aprile? In che anno?
Avevo letto che aprile è il più crudele dei mesi.
E venne la sua voce,
un buonanotte
ultimo il giorno cinque.
Mi resta quella voce registrata.
Viene da altre ere, altri pianeti.
Pura essenza in cui lei si trasfigura,
profumo vivo di fiore sprofondato.
“Avevo una grande paura che mia madre ancora giovane, in quanto aveva
settant'anni, morisse. Lei venne a stare a Roma e ci sentivamo, per cui ho
registrato la sua voce, pensando di ascoltarla per quando lei non ci sarebbe
stata più. L'ho fatto a tradimento, ed era il famoso mese di aprile. T.S. Eliot
dice: “Aprile è il più crudele tra i mesi”. Era l'otto di aprile e mia madre è
morta all'improvviso in due giorni: ha avuto un ictus ed è scomparsa. E allora
il ricordo di quella telefonata ha dato origine a questa poesia. La poesia è
una grande metafora della morte, come la morte lo è della poesia, però di
quella morte che ci fa riprendere tutto dall'inizio immettendoci in un nuovo
ciclo di nascita e trasformazione.” (Intervista del 1999)
Che cos'è la poesia?
Se uso la parola è per pregarti di ascoltare il
mio fondo silenzio.
Non c'è ancora un linguaggio (o s'è dimenticato)
per tradurre ciò che a te ho da dire.
Un pagliaccio batteva su un tamburo.
Era musica d'angeli, secondo il suo cuore.
E non vedeva più nemmeno
l'orso che gli zompava accanto.
-M.L Spaziani, La stella del libero arbitrio
La poesia è una metafora di vita: si
scrive per riordinare l'esistenza, per imprimere i ricordi, per esprimere la
meraviglia della contemplazione. Ma tutto ciò avviene sempre da un punto di
vista privilegiato che è solo del poeta.
La lucerna
Il poeta con il suo diadema di solitudine
è un'oliva schiacciata nel frantoio.
Potesse al mondo una lucerna sacra
brillare grazie a lei.
Il poeta viene visto come un profeta,
la sua è una vocazione e il suo destino è di
solitudine;
la poesia assume così un alone divino.
Lui era
l’Orso, lei la Volpe. Lui era il più grande poeta del Novecento, lei una
giovane e vibrante letterata. Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani, storia di
un’amicizia amorosa mai finita.
“Avevo venticinque anni e morivo dalla voglia di incontrarlo. Conoscevo a
memoria Ossi di seppia e qualche poesia delle Occasioni. Accadde
al Teatro Carignano, nel gennaio del 1949. Montale mi guardò con un’intensità
così forte che ne rimasi turbata. La mia era una famiglia borghese molto
accogliente, che assecondava le mie passioni letterarie. Proust soprattutto, ma
anche Montale. “Meno male che Proust è già morto”, fu il commento di mia madre
alla notizia dell’illustre convitato. Eugenio ci avrebbe riso sopra, scusandosi
poi con i miei genitori: “Mi dispiace non essermi ancora reso defunto”». Ci
siamo molto divertiti insieme. Era persuaso che ogni giorno accadesse una scena
comica. Bisognava solo trovarla. La sua era una risata a balzi. Prima cercava
di arginarla, poi cedeva all’esplosione. Una volta rischiammo di essere
cacciati dalla Scala. Era animato da un’inspiegabile antipatia per una
ballerina classica. “Ha la faccia di una che perde le mutande in pubblico”, si
lamentava. Cominciò il Lago dei cigni e dal tutù della poveretta prese a
scendere una striscia di pizzo. Non posso dimenticare l’espressione grave di
Montale mentre artigliava i due braccioli della poltrona: “Ci siamo!”.
Scappammo dal palco piegati in due. Dopo il pranzo in famiglia, tornato al
Corriere mi mandò un espresso. Poi sarebbero arrivate le gardenie, i
profumi ricercati, le tenerezze, le poesie d’amore. Ma già durante il piccolo
convivio era apparso un po’ sovreccitato. Ebbe l’idea di mostrarci come aveva
visto danzare una baiadera durante una sua visita in Libano. Si alzò da tavola,
prese un grosso tovagliolo e con passetti di danza cominciò a sventolarlo a
destra e sinistra. No, non sono mai stata bella. Era affascinato dalla
vitalità, questo sì. Subito abbiamo trovato un terreno infuocato di interessi e
curiosità e una grande leggerezza, la voglia di ridere e giocare. Eugenio non
era mai stato ragazzo. Prima l’infanzia in una città un po’ tetra come Genova,
poi i tempi asfittici di Firenze, segnati da ristrettezze economiche. Aveva
saltato i tempi giusti della formazione emotiva: la competizione, il rischio,
l’esperienza della libertà. Un giorno lo vidi appoggiato al banco di un’agenzia
di viaggio, metteva il piede all’interno come fanno gli orsi. “Mi sei sembrato
un orso”, gli dissi. Ecco, fece lui, l’Orso va bene con la Volpe. Non aveva mai
fatto sport. Una volta riuscii a convincerlo a venire sul tandem, ma siccome
c’erano creste di terra rassodate dopo un temporale, il tandem prese a
ondeggiare. Montale esclamò spaventato: “Pedala,
angelo mio!” senza accorgersi del surrealismo della frase. Non mi sostenne
quando ho avuto bisogno: mai una telefonata per aiutarmi a trovare una
collaborazione giornalistica. Così come evitò sempre di recensirmi. Carlo Bo e
Salvatore Quasimodo recensirono certe loro amiche anche occasionali. Eugenio
fino all’ultimo si mantenne fedele a quella che chiamava “decenza quotidiana” o rispetto borghese delle convenienze.”
La poesia è
dedicata a Volpe, la donna che incarna l'eros, la passione amorosa. Volpe ha in
sé il bene e il male, è capace di unire e dividere, da lei
possono venire perdizione e salvezza: sulle gracili spalle
di questa creatura selvaggia ci sono anche le ali dell'angelo, che solo
il poeta è capace di vedere. Così Montale la descrive in Se t'hanno
assomigliato, una poesia dei Madrigali privati: se t'hanno assomigliato alla volpe sarà per la falcata prodigiosa, pel
volo del tuo passo che unisce e che divide, che sconvolge e rinfranca il
selciato (il tuo terrazzo, le strade presso il Cottolengo, il prato, l'albero
che ha il mio nome ne vibravano felici, umidi e vinti) - o forse solo per
l'onda luminosa che diffondi dalle mandorle tenere degli occhi, per l'astuzia
dei tuoi pronti stupori, per lo strazio di piume lacerate che può dare la tua
mano d'infante in una stretta; se t'hanno assomigliato a un carnivoro biondo,
al genio perfido delle fratte (e perché non all'immondo pesce che dà la scossa,
alla torpedine?) è forse perché i ciechi non ti videro sulle scapole gracili le
ali, perché i ciechi non videro il presagio della tua fronte incandescente, il
solco che vi ho graffiato a sangue, croce cresima incantesimo jattura voto vale
perdizione e salvezza; se non seppero crederti più che donnola o che donna, con
chi dividerò la mia scoperta, dove seppellirò l'oro che porto, dove la brace
che in me stride se, lasciandomi, ti volgi dalle scale?
Solitudine
Solitudine
marina, / il tramonto è l'addio/ dei vecchi pensieri. /Immagine del cuore /
nella mente. /Il vento della collina, / andando
per miglia/ e miglia di fitte pinete.
Pescatori
Mattina d'estate/ sogni d'amore, / l'alba si sveste /
nelle pinete. / Nel porto il sole / bagna i marinai, / sull'acqua agitano/ la
loro forza regale. /Dolore nel paese / pesca, l'onda del mare / solleva la
barca. / I pescatori / maledicono il vento. / Attendo che il sole/ alleggerisca
il mare. /
Luna
Vergine luna / appare sulla collina. / Gli alberi
pesano / al cuore della notte. /Amare le radici. / Sulla mia fronte/ suonano le
foglie. /Oltre i confini del bosco / la luna. Col volo delle rondini / le vie
della collina.
Valle
Qui il giro lento delle notti, / l'ansia cresce la
flora / meravigliosa della valle. / Qui ogni riposo è dolore, / il tempo nei
rami degli alberi / e la notte conduce / alla fissità irreale della sostanza. /Pietra
od erba nel campo / e valle in me si sprofonda / al grido ilare degli uccelli.
/Sia di conforto la voce. / Qui giace la vita perduta.
di Antonetta Carrabs
da La Rivoluzione delle Sibille, Nemapress edizioni
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