Ami domani chi non amò mai: domani ami chi amò (dal Pervigilium Veneris)
Inno a Venere e all’amore, il Pervigilium Veneris, poemetto tramandato
dall’Anthologia latina, una raccolta di componimenti e collezioni poetiche del
periodo compreso tra il VII e il X secolo, era un inno alla dea che veniva
cantato alla vigilia della festa primaverile di Venere genitrice, celebrata in
Sicilia all’inizio della primavera. Ignoto è l’autore ma, per l’esaltazione dell’amore, della fecondità e della
fioritura, per le lodi a Venere come potenza fecondatrice della donna, che
tradisce una religione matriarcale poco diffusa nel mondo romano e, dunque,
attribuibile solo ad una concezione femminile, per lo spirito in generale che
permea i versi, molti studiosi ritengono che sia sicuramente opera di una
donna. L’immaginario mondo descritto è dominato dalla legge dell’amore alla quale
soggiace e partecipa festosamente l’intera natura, eppure nella chiusura del
carme, alla dolcezza e all’abbandono di tutte le creature, continuamente
sottolineato da una specie di refrain che riassume l’attesa gioiosa di tutto il
componimento, si sostituisce un velo di malinconia perché l’autore non
partecipa alla gioia collettiva. L’inno, che si serve di un lessico poetico apparentemente popolare, ma tradisce
la raffinatezza e il preziosismo della poesia dotta, dei poeta e novelli e di
Catullo, per la straordinaria musicalità e per il fascino emanato dalle
suggestive, talvolta anche leziose, immagini può essere considerato un piccolo
capolavoro
Ami domani chi
non amò mai: domani ami chi amò.
Ecco la nuova primavera,
la primavera dei canti; di primavera è nato il mondo, di primavera concordano
gli amori, di primavera sposano gli uccelli e la foresta spiega la sua chioma
dalle piogge fecondatrici. Domani la congiungitrice degli amori tra le ombre degli alberi intreccia
verdi capanne con ramoscelli di mirto. Domani detta Dione le sue leggi dall’altissimo
trono. Ami domani chi non amò mai. Domani ami chi amò.
Essa di floride gemme dipinge la purpurea stagione, essa i boccioli che
gonfiano al soffio di Zefiro sospinge nelle loro corolle: essa della lucente
rugiada che l’aura notturna depone, diffonde le umili stille. Ecco splendono le lacrime tremanti tratte giù dal loro peso: la goccia
che sta per cadere pende inerte nel suo piccolo globo. Ecco le fiorenti porpore
hanno già svelato il pudore. Quell’umore che gli astri stillano nelle notti serene domani tutte si
sposino le vergini rose. Fatta del sangue di Venere Ciprigna e di baci d’Amore
e di gemme e di fiamme e della porpora del sole, domani il rossore, che si
nascondeva sotto l’ignea veste, la rosa non si vergognerà di sciogliere dall’unico
boccio.
Ami domani chi non amò mai: domani ami chi amò.
La voluttà feconda i campi; i campi sentono Venere. Lo stesso Amore,
figlio di Dione, si dice nato in campagna. Mentre la terra rifioriva, essa lo
accolse al suo seno, essa lo educò coi delicati baci dei fiori.
La stessa dea ordinò alle Ninfe di recarsi nel bosco di mirti;
Cupido, suo figlio, accompagna le fanciulle; tuttavia non si può dire che Amore stia in riposo visto che porta con sé le frecce. Andate, o Ninfe. Ecco che Amore ha deposto le frecce, è in riposo; gli è stato ingiunto di venire con voi disarmato, gli è stato ingiunto di venire nudo affinché non posa nuocere a nessuno con l’arco e con le frecce o con la fiaccola. Tuttavia, o Ninfe, state attente perché Cupido è bello: egli è tutto in armi anche quando di esse è spoglio.
Ami domani chi non amò mai: domani ami chi amò.
Ecco già sotto alle finestre i tori stendono i loro fianchi, sicuro
ognuno del nodo coniugale ond’è avvinto. Sotto l’ombra coi mariti ecco i greggi
belanti delle pecore: e pure gli uccelli canori non volle la dea che tacessero.
Già i garruli cigni riempiono gli stagni del loro rauco strido, all’ombra del
pioppo echeggia il canto della fanciulla di Tereo, sì che tu credi che sensi
d’amore ella esprime con la gola armoniosa anziché lamentare la sorella per il
barbaro marito. Lei canta e io taccio. Quando viene la mia primavera? Quando
sarò come la rondine e finirò di tacere? Ho perduto tacendo il mio canto, e
Febo non mi considera più. Il silenzio perdette così la tacita Amicle.
Ami domani chi non amò mai: domani ami chi amò.
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