Donne di Sardegna e di Lombardia




Ci sono donne che, per un verso o per un altro, hanno lasciato un segno indelebile nella storia. La loro stessa vita, spesso, è un pezzo di storia del loro paese, dell’arte, della cultura o della scienza. Donne protagoniste della loro epoca. Donne fuori dal comune che hanno scritto pagine intere di letteratura e poesia.
 
La Sardegna mi riporta ai suoi profumi di mirto, di cisto, di zafferano, di euforbia, di fiordaliso spinoso, di fichi d'india, di peonie selvagge, di gigli di sabbia, di rosmarino, di ginepro, di oleandro, di boschi di querce da sughero, di lentischi, di eucalipti, di pini, di mare e poi di ulivi. Un’antica terra matriarcale dove le donne sono detentrici di saperi e  insegnanti, abili consigliere, ispiratrici della poesia e dell’arte e artiste al tempo stesso. Lo scrittore Giuseppe Dessì, dopo aver conosciuto Maria Carta, disse:  i grandi uomini della Sardegna sono stati donne. La storia della Sardegna custodisce donne straordinarie che, anche se talvolta non sono entrate a pieno titolo tra le pagine della memoria dei luoghi, ne hanno caratterizzato lo spirito più profondo. Vorrei ricordarne una, in particolare: Mercede Mundula Crespellani, saggista, scrittrice e poetessa, è una fra le affascinanti figure femminili del Novecento. Secondogenita del notaio Carlo Mundula e di Nepomucena Zuddas, Mercede nasce a Cagliari il 1° marzo del 1890.

La sua vivacità intellettuale era frutto dell’educazione in famiglia. Amica di Grazia Deledda, di lei scrisse: Grazia Deledda fu non solo scrittrice originalissima, ma donna singolare, e della specie più insolita, che è poi quella di non aver l’aria di esserlo; il che, per una donna che scrive, è fenomeno assolutamente raro. La ventenne, fedele amicizia che mi legò a lei è stata anch’essa cosa originale. C’era fra noi come una tacita intesa: parlare poco di letteratura e molto dei fatti veri della vita, tanto che a voler dare un titolo alle nostre lunghe conversazioni sceglierei senz’altro questo: “Meditazioni sulle cose”. Al ritorno dalla Svezia, accennando all’ultimo viaggio  scrisse: «Da questo porto un bel giorno, in una barca d’ebano decorata d’oro e lieta di ghirlande di rose, salperemo verso il paese dei cipressi, che ci sembra qui limitrofo ed è invece oltre i confini della terra». Non volle invece né l’ebano decorato d’oro, né la letizia di ghirlande di rose; chiese solo di essere sepolta nella fossa comune, in quel paese dei cipressi che scorgeva dalle finestre, e alla cui ombra volle recarsi senza vane pompe e senza vane parole, offrendo con umiltà alla terra la povera spoglia terrena e a Dio il fremente e liberato spirito.

La scrittrice Matilde Serao di  Mercede Mundula Crespellani scrisse: S’intravede  in Mercede Mundula, la razza austera e valorosa di Sardegna, ma ammorbidita, addolcita da una femminilità, dirò così, continentale: e, forse, il buon sangue di questa Mercedes, non è solo di Sardegna… Sì, la sua lampada è piccola: e non ci dispiace; e non chiediamo che diventi una sfolgorante lampada ad arco, che accieca e contro cui vanno a morire le farfalle notturne; e invece amiamo saperla fra le penombre, così spesso più opprimenti delle tenebre, questa piccola lampada che ci guarda, col suo soave occhio di luce, di lontano, che ci popola la nostra solitudine, e, quasi, rianima intorno a noi, il silenzio, senza parole, senza voce, ma lucente in penombre, la piccola lampada!»
 
La donna lombarda, una forza di modernità e di integrazione

Mai con le mani in mano, come raccomandava Carlo Borromeo perché il peccato è figlio della noia. Di madre in figlia il motto ha presieduto alle consuetudini domestiche, anche tra i laici, come una promessa di dignità nell'esistenza terrena. Il paesaggio lombardo porta i segni di un lavorio secolare. Se la forza muscolare maschile dissodava i campi, scavava i canali e batteva il ferro, la destrezza manuale delle donne estraeva il filo di seta, tesseva il lino, cuciva gli abiti, spigolava tra le messi, provvedendo alla sopravvivenza delle famiglie e al futuro delle generazioni a venire. Donne con l’inclinazione al fare, con quel tipo di severa laboriosità che ha lasciato nel corso dei secoli una schiera di solide lavoratrici, di dotte educatrici, di capitani d'azienda, di generose benefattrici, di operaie dal tocco svelto, di sarte dall'ago sapiente. Ad avviare la Lombardia verso la modernità è stata una donna, per giunta neppure lombarda:  nel 1760 l'imperatrice Maria Teresa d'Asburgo impose, con il catasto, una tassa sulle proprietà, redditizie o meno. E allora tanto valeva mettere a frutto le terre, in un circolo virtuoso che ha rilanciato l'economia locale.
Una sessantina di anni dopo, per condurre l'esperimento d'avanguardia di insegnare a leggere e scrivere ai piccoli di Locate, Cristina Trivulzio di Belgiojoso non si curava troppo di essere disapprovata da Alessandro Manzoni: «Quando tutti sapranno leggere e scrivere, domandava perplesso lo scrittore, chi vorrà più lavorare la terra?» Ora che tutti sanno leggere e scrivere, l'agricoltura non è affatto morta e la sua economia è così varia di prodotti e servizi da avere bisogno di chi filetta le viti o calcola il cemento armato. Il cardinale Andrea Ferrari si preoccupava dei poveri e sosteneva l'energica Armida Barelli, «mai con le mani in mano» nell'Azione cattolica, perché è meglio trovarsi a imparare il catechismo piuttosto che subire l'assedio dell'ozio; la socialista Ersilia Bronzini Majno invece provvedeva alle «povere ragazze», ospitandole all'Asilo Mariuccia, dove imparavano un mestiere e allevavano i bambini marchiati come «figli della colpa» e le sarte Biki, Germana Marucelli e Jole Veneziani, distinte signore che avevano incrociato la cultura e la mondanità, riscattando l'italianità dalla pomposa vergogna del fascismo.

ANTONIA POZZI, fra le poetesse a me più care



Nasce il 13 febbraio 1912 dall’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Era bionda, minuta. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza.  Nel 1922, non ancora undicenne affronta il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano. Incomincia a dedicarsi alla poesia e fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927. Antonia frequenta la prima liceo e si innamora del suo professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi per la sua straordinaria cultura e per la passione con cui insegna, per la moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, per la dedizione con cui segue i suoi allievi. Sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre. Un amore incancellabile. Con una tesi su Flaubert, alcuni anni dopo, si laurea con lode il 19 novembre 1935. Coltiva l’amore per la montagna  fin dal 1918, quando incomincia a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna. Ma Antonia vive dentro di sé un dramma esistenziale. Muore suicida il 3 dicembre del 1938
 
Amore di lontananza
Ricordo che, quand’ero nella casa                                     
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava                                 
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.
Milano, 24 aprile 1929

Commenti

  1. Pasturo, un paese cosi dolcemente accarezzato dai monti, ispira sentimenti cosi struggenti! Ma perché le donne così grandi non hanno la forza di capire che non vale la pena di morire per niente e per nessuno? Lo dico anche a me stessa. Mi struggo quando una donna non c'è la fa.

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    1. Lucrezia me lo sono chiesta anche io tante volte. Penso che la sensibilità dell'anima e del cuore portino spesso al dolore e alla sofferenza. Antonia Pozzi ci ha regalato versi struggenti dai quali, oltre alla bellezza della natura così elegantemente narrata, emerge tutta la sua fragilità. A queste persone dobbiamo molto. Leggerle e ricordarle è un po' come ridare loro respiro. Un caro saluto. A

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  2. Pasturo, un paese cosi dolcemente accarezzato dai monti, ispira sentimenti cosi struggenti! Ma perché le donne così grandi non hanno la forza di capire che non vale la pena di morire per niente e per nessuno? Lo dico anche a me stessa. Mi struggo quando una donna non c'è la fa.

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