Giornata mondiale contro la violenza sulle donne
Nel 1979, in Italia, lo stupro era ancora considerato un reato contro la morale. Chi commetteva una violenza sessuale veniva processato per aver violato la moralità pubblica e il buon costume e non per aver commesso un crimine contro la persona. La normativa fu cambiata, dopo un lunghissimo iter parlamentare, con la legge n.66/96 denominata “Norme contro la violenza sessuale”, che rappresentò una vera rivoluzione copernicana nella classificazione del reato. Il Codice Rocco, ovvero il codice penale risalente al 1931, tuttora in vigore pur se epurato dalle norme più autoritarie, per 65 anni aveva perpetuato un approccio di 'benevolenza' verso gli stupratori, declassificando il loro crimine a semplice violazione alla pubblica morale: annacquava lo 'scandalo' ad un'offesa del comune senso del pudore, tralasciando del tutto la tutela della vittima. Sottesa c'era una mentalità – purtroppo ancora largamente diffusa – secondo la quale la donna Circe quasi quasi aveva a tal punto tentato il proprio carnefice da essere correa. Ed è soltanto in tempi molto vicini a noi che avviene una soluzione di continuità proprio con la nascita di una nuova cultura che condanna la violenza coniugale. Nemmeno questa più aspra tutela e le pene più severe comminate hanno comportato una riduzione del numero degli episodi di violenza né la loro gravità. Oggi anche nei Tribunali e in molti processi si usa il termine femminicidio che, nella sua più ampia accezione, indica qualunque attentato, sorretto da consenso sociale, contro la vita della donna che provochi o meno la sua morte. Tale parola, dopo una timida comparsa nel XIX secolo in testi giuridici inglesi, rispuntò nel 1990, ad opera di due studiose, la docente femminista di Studi Culturali Americani, Jane Caputi e la criminologa Diana Russell. La legge che riconosce nella violenza sessuale un delitto contro la persona è entrata in vigore il 15 febbraio del 1996. Il 15 febbraio del 2016 ricorre il suo ventennale, un'occasione che potremmo cogliere per riflettere su eventuali emendamenti che rendano la legge stessa, in base a questi quattro lustri di vigenza, maggiormente incisiva e introducano azioni preventive a tutela delle potenziali vittime.
Il delitto di violenza
sessuale viene previsto dall’art. 609 bis c.p. il quale indica che chiunque,
con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a
compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da 5 a 10 anni. Alla
stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali
abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa
al momento del fatto o traendo in inganno la persona offesa.
La legge 15 febbraio 1996 n.66, oltre a modificare sostanzialmente le
ipotesi incriminanti in materia, ha disposto lo spostamento dei delitti
sessuali all’interno del codice penale dagli artt. 519 ss agli artt. 609 bis a
609 decies e dal libro riservato ai delitti contro la moralità pubblica e il
buon costume al libro secondo dedicato ai delitti contro la persona. Lo stupro con cui si definisce
la violenza carnale è anche un’onta, un disonore, una vergogna per la donna
stuprata, non per lo stupratore. In questo spostamento del disonore da chi
compie l’atto e chi lo subisce sta l’operazione perpetuata nei secoli dalla
nostra cultura, in ogni sua declinazione sociale plasmata dagli uomini, che
rende la donna colpevole e meritevole delle violenze subite. La violenza sulla
donna permane ancora largamente un’emergenza. La società nel suo complesso,
fatte salve alcune voci maschili significative, è incapace di assumerla come
emergenza. E’ questo lo scoglio. E’ qui che dobbiamo continuare la nostra
azione. Il primo processo di
stupro fu mandato in onda dalla RAI il 26 aprile 1979. L’idea di documentare un
processo per stupro scaturì in seguito a
un convegno internazionale sulla violenza di genere tenutosi nell’aprile del
1978 nella Casa delle Donne a Roma. Allora la parola stupro non esisteva. Fu
l’avvocato Augusta, detta Tina, Lagostena Bassi, a introdurla e a imporla alle
coscienze. Nota come uno dei più
agguerriti avvocati per la difesa dei diritti delle donne e fondatrice
misconosciuta di Telefono Rosa, Tina Lagostena Bassi difese Donatella
Colasanti, una delle due vittime (quella sopravvissuta) dell'eclatante stupro
del Circeo, contro uno dei tre del 'branco', Angelo Izzo nel processo che
seguì. Un delitto per il quale due su tre dei colpevoli rimasero praticamente
impuniti e ricoverarono all'estero.
In un’intervista del
2007, un anno prima della sua morte, Tina Lagostena Bassi sottolineò come la
trasmissione in TV del processo svoltosi al Tribunale di Latina fu scioccante
perché si rendeva visibile la maniera in cui gli avvocati difensori potevano
essere altrettanto violenti degli stupratori nei confronti delle donne
incalzandole sui dettagli della violenza o sulla vita privata della parte lesa,
trasformandola in imputate. L’atteggiamento che
emergeva in aula era quello che una donna di buoni costumi e di morale
ineccepibile non poteva essere violentata; che se c’era stata una violenza,
questa doveva evidentemente essere stata provocata da un atteggiamento
sconveniente da parte della donna; che se non c’era una dimostrazione di
avvenuta violenza fisica o di ribellione, la vittima doveva essere ritenuta
consenziente. Una morbosità mai
rinnegata, che oggi ritroviamo anche nelle trasmissioni tv. Quanti di voi hanno
notato come, nella puntata dedicata alla tragica morte di Yara Gambirasio, vi
sia stata una descrizione sadica dello stato delle mutandine dell'adolescente
ritrovata uccisa e delle torture subite da lei prima di morire? Anche quella è
violenza alle donne. In quella sede processuale a Latina l’avvocato difensore
disse che una violenza carnale con fellatio poteva essere interrotta…con un
morsetto. Sarebbe passata immediatamente a chiunque la voglia di continuare. La violenza carnale è
il contrario della sessualità. E’ nient’altro che una voglia insana e demoniaca
di calpestare il proprio simile, un altro essere umano. E’ umiliazione, è
mortificazione. La magistratura, oggi, è un’alleata fondamentale nella
battaglia delle donne contro la violenza. La preparazione culturale di giudici
e magistrati su questi temi è cresciuta molto in questo trentennio, da allora.
Ci sono magistrati che hanno prodotto sentenze innovative, ed altri che rimangono
inchiodati a concezioni passatiste (ricordate la sentenza della Cassazione
sull'assoluzione di uno stupratore perché la vittima indossava i Jeans, emanata
in tempi vicinissimi proprio alla legge 66/96?) ma la questione è anche
politica. Per i reati di mafia
lo Stato giustifica misure eccezionali in quanto riconosce una generalizzazione
di criteri e comportamenti criminali nella cultura mafiosa. Questo non accade
per i reati sessuali che non sarebbero connotati di omogeneità. Non vi
sarebbero comportamenti, cause, mezzi modalità generalizzate, sicché ogni caso
si differenzia dall’altro, senza che venga riconosciuta l'esistenza di una
'cultura dello stupro, atavica e ancora predominante. Molte donne,
oggi, non trovano il coraggio di denunciare le violenze subite
perché non vedono futuro, perché si sentono sole, perché lo Stato non le
tutela, perché non si sentono protette abbastanza. Spesso
le vittime di violenza domestica nascondono la loro verità dietro un paio di
lenti scure. Gli occhi gonfi e il pugno ancora incastrato sugli occhi. E
mentono, persino, al Pronto Soccorso degli ospedali: un po' per un senso di
vergogna e di autocolpevolizzazione che non riescono a svellere dalla propria
coscienza, un po' perché sembra una denuncia inutile, tanto non c'è chi dà loro
un'alternativa economica e logistica alla convivenza col proprio tormentatore.


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