La favola di Maris Stella - da Bombalooo



Dopo un lungo cammino, la principessa Maris Stella giunse alla sorgente del fiume e trovò, sperduto nelle solitudini, un vecchio intento a suonare il liuto. Le sue dita scorrevano agili sulle corde. Una magica melodia si diffuse per la valle sì che la giovane Maris Stella ne rimase meravigliata. Il vecchio maestro le insegnò l’arte di suonare il liuto e l’anima di Maris Stella fu completamente pervasa dalla musica e dalla poesia. Incominciò a notare nelle cose più semplici la bellezza e l’armonia del tutto. La leggerezza del vento su uno specchio d’acqua, il sorgere del sole quando timidamente sembra esitare sull’orlo dei monti; il volo degli aironi in una sera di primavera, il fruscio delle foglie sui rami carichi di frutti. Tutto intorno risuonava all’unisono la musica perfetta, la bellezza e la grazia delle cose più semplici. La natura rivelava uno scrigno prezioso fatto di luce, di sole, di odori e di colori. Non era la lucentezza delle pietre preziose, dei gioielli sugli abiti di broccato d’oro di Bisanzio. Era la lucentezza della natura! Tutt’intorno il paesaggio era colore e lontananza. Era nube che si sfilacciava, era raggio di sole che tracimava dalle fronde. Quella semplicità delle cose colorate e luminose rallegrava lo sguardo.

 In quel paradiso di colline e valli morbide di prato, il piede sembrava calpestare i tappeti dorati dell’Asia. Maris Stella guardava intorno a sé con occhi sempre più luminosi. Tutto intorno era caldo e silenzioso. Il profumo del gelsomino era intenso e le rose splendevano opache. Con un senso di gratitudine e di liberazione Maris Stella si abbandonò alla piacevolezza di quel mondo di felice serenità. Sentiva emanare un lieve, freddo flusso di tenerezza che le scivolava dentro il cuore. I suoi occhi grigi erano pieni della bellezza del mondo. Intanto la campagna si apriva sui prati e i boschi, senza fretta, lungo il fiume. Una tenera aria di primavera palpitava sulla collina verde-grigio dove si vedevano spuntare luminosi i primi fiorellini gialli, mentre i margini delle siepi erano già pieni di gemme turgide. Quel giorno il cielo era di un azzurro umido e andava a sfiorare le punte merlate dei monti. Maris Stella si allontanò dal palazzo senza che nessuno se ne accorse. Si incamminò lungo un sentiero di oleandri rosa e gigli profumati. Sul suo cammino incontrò carrettieri e contadini che la salutarono cortesemente. Non c’era pericolo che si perdesse. Si sentiva bene in quell’aria lievemente assolata. Il suo cuore era come in vacanza. Si meravigliò piacevolmente nel conoscere niente di più bello di quell’andarsene senza pensieri attraverso quel mare di verde e azzurri, di profumi e di suoni di campagna.  
Maris Stella  era la figlia di Filippo Cortinas. Maris Stella era la dama più bella di Gesualdo. Le rime e le canzoni a lei dedicate erano più numerose delle rondini che ritornavano a Gesualdo dopo l’inverno. Maris Stella Cortinas era alta e snella come un cipresso, due occhi blu come il mare quando è calmo e un manto di capelli neri che l’aria leggera era solita accarezzare, sfiorando piano i suoi lunghi abiti di broccato e di seta. Quel giorno la bella principessa si era allontanata dal castello senza Tobia. Tobia era il  suo giullare dal naso troppo grosso. Era basso e rugoso. Aveva un’andatura buffa. Non c’era in tutto il mondo un omino così grottesco che riusciva a far morire dalle risate o riduceva nella disperazione qualsiasi persona.

-Maris Stella è una stella, Maris Stella è una stella…- ripeteva sempre Tobia alle persone che incontrava.

Tobia era solito leggere antichi libri e amava raccontare storie fantastiche fatte di magia, antichi sortilegi e cruenti battaglie. Quando incominciava a narrare, il nano giullare, dal naso troppo grosso, non si fermava mai. Proprio come fa il fiume che scende dal bosco, dove tutto si riflette: dai più piccoli fili d’erba alla azzurra volta del cielo. I suoi racconti a volte erano pieni di spavento, altre volte carichi di sogni, di straordinari viaggi, di sirene e di deserti che si dilatavano e si ingrandivano. Altre volte ancora erano esuberanti di racconti di racconti fatti di distese uniformi, sconfinate, che generavano orizzonti spietati e infiniti, dove di notte le stelle brillavano a grappoli.  
Ma c’era qualcosa nell’aria. Qualcosa di strano. E intanto che Maris Stella si allontanava da palazzo la profondità della valle si copriva di nuvole biancastre.  Quel giorno l’uccello solitario cantò fino a mezzanotte. Ad un tratto la collinetta di fronte le apparve inondata da un raggio infuocato di sole che vagava e ondeggiava fino a lambire le pendici. Bruciava i cespugli, spaccava le pietre e avvolgeva l’immensa distesa verde in un unico bagliore. Il fuoco stava distruggendo la bellezza di quel luogo con lingue arroventate che avvolgevano i tronchi degli alberi fino a trasformarli in grossi ceri accesi. Che spavento! Cosa stava accadendo?
 
 Il giullare intanto non si era accorto di nulla. Si era addormentato di colpo. Ma quando si svegliò un senso di inquietudine gli fece oscillare la testa. In stato di trance bevve un sorso d’acqua dalla borraccia e il respiro gli tornò subito regolare. Incominciò a cercare la principessa in tutte le stanze, inciampando nelle scarpe di stoffa rosse appuntite. Cadeva come un sacco di patate e si rialzava dolorante, mentre si portava una mano sul sedere. Il disco vermiglio del sole si stava spegnendo, inghiottito all’orizzonte. La vampa di calore continuava a salire dalla collinetta. Le pietre seguitavano a emettere getti di vapore, mentre l’uccello solitario continuava a librarsi nell’aria incandescente.
Maris Stella, colma di inquietudine, iniziò a incespicare. Sopra le violacciocche una miriade di farfalle tremanti, dal frullo capriccioso, si levavano frettolosamente nell’aria. Sembrava che avessero avvertito il pericolo. C’era fumo sulla valle. Tanto fumo biancastro e grigio che non faceva respirare. L’erba bruciata dal sole pendeva a ciocche biancastre. Il fogliame arroventato delle ginestre emanava un odore forte e amaro in quella calura senza vento. Il fuoco, ahimè! Il fuoco stava bruciando ogni cosa. Quel fumo acre  impediva alla principessa di riprendere il sentiero verso casa. Incominciò a tossire mentre cercava di portarsi la mano sulla bocca. Maris Stella era in pericolo. Chi l’avrebbe salvata? Quando tutto sembrava ormai perduto, in quel chiarore, fra pezzi di cielo azzurro, sbucò un cavallo bianco che risalì la collinetta arroventata con la furia di un uragano. Era un cavallo fatato che la maga Cibernella aveva mandato per trarre in salvo l’amata principessa. Come per magia, tutto si trasformò in sogno. L’erba diventò rigogliosa e un venticello lieve di primavera accarezzò le chiome degli alberi. Dalla collina bruciata spuntarono fiori dalle mille specie: rossi, verde muschio, gialli, a pois, arancioni. Erano i fiori più grandi del mondo. Erano i fiori di Maris Stella, la principessa che amava la musica, la poesia e la natura. Erano i fiori di Maris Stella che amava la Bellezza.

 

 
Anche questa storia, come tutte quelle che il nonno Parmenide mi raccontava, finiva sempre con la solita frase:

- E adesso dammi la mano Attilio, perché sono vecchio e devo andare a dormire.

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