Antonia Pozzi e il peso del mondo

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Il mese di febbraio voglio dedicarlo alla poesia di Antonia Pozzi, una delle voci poetiche a me più care. La sua è una poesia che si mimetizza costantemente con l’umano, con lo spirito del tempo, del luogo e, soprattutto, della natura;  una poesia che leviga sempre le parole e che non grida la sua materia o la sua linea d’avanguardia; una poesia che è continua intermittenza dell’Essere. Il suo destino entra a far parte del circuito lirico ossessivo del novecentismo in cui tutta l’esistenza è in combutta con i fantasmi freudiani, con il sogno-incubo di una vita che non si realizza e che precipita, in cui l’amore impossibile fa da perno ad un sottile dramma psicologico: Ho imparato che cosa sia il dolore. Tu non immagini che cosa fosse lui per me. Io avevo avuto la fortuna di incontrarlo nell'età inquieta in cui tutto il nostro essere sboccia e anela alla vita, in cui ogni influenza esterna lascia nell'anima un'influenza indelebile, in cui ci torturiamo ricercando l'inizio della nostra via e l'indirizzo del nostro cammino nel mondo ... Con la parola e con l'esempio egli mi ha dato uno scopo e una fede: mi ha insegnato a guardare più in alto e più lontano; mi ha additato la via per diventare più buona... ” Così descrive la poetessa il suo immenso dolore, in una lettera alla nonna. Un dolore immenso, lancinante, un dolore per la vita e per l'amore che la porta giovanissima ad uscire di scena. In silenzio.
La vita  Alle soglie d'autunno in un tramonto muto scopri l'onda del tempo e la tua resa segreta come di ramo in ramo leggero un cadere d'uccelli cui le ali non reggono più.
 
Antonia Pozzi nasce il 13 febbraio 1912
 

Dall’aspetto minuto. Antonia era delicatissima. Cresce in un ambiente colto e raffinato: il padre Roberto Pozzi, avvocato già noto a Milano, la contessa Lina, sua madre, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Nel 1922, non ancora undicenne, frequenta  il Liceo ginnasio Manzoni, diplomandosi nel 1930. Poi  gli studi universitari alla Statale di Milano. Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia e nel 1927, durante  la prima liceo, Antonia si innammora del suo professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi dal quale attinge l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene.  Sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre. Nel 1933, non secondo il cuore, ma secondo il bene, scriverà Antonia, rinunciando ai suoi sentimenti. Il ricordo di questo amore resterà incancellabile dalla sua anima. Nel 1930 Antonia si iscrive all’Università - facoltà di Lettere e Filosofia. I suoi maestri: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio. Frequenta il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi e si laurea, con lode il 19 novembre 1935, con una tesi sulla formazione letteraria di Flaubert. Colta, piena di curiosità, intelligente. Coltiva l’amore per la montagna, fin dal 1918, quando incomincia a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna. Si avventura in lunghe passeggiate, scalando le rocce alpine. Vive esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini.
 
 
Nel 1931 va in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, ma sembra essere stata quasi costretta dal padre, che intendeva allontanarla da Cervi; nel 1934  visita la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scopre quel mondo di civiltà e di umanità tanto amato e studiato dal suo professore. Fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca. Segue le lezioni di Vincenzo Errante: traduce in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta maestra in fotografia. Non era tanto il desiderio di apprenderne la tecnica, quanto il bisogno di carpire quel sentimento nascosto  delle cose, delle persone, della natura che l’obiettivo può svelare, restituendo loro il senso di eternità che la realtà, a volte, riesce a celare. I suoi album sono vere pagine di poesia in immagini. Antonia Pozzi vive un incessante dramma esistenziale che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica.
 
Era il 3 dicembre del 1938. Quel giorno, come tanti altri, si recò all'Istituto Tecnico «Schiaparelli» di Milano, dove insegnava. A metà mattina chiese di uscire prima dalla scuola. Si diresse a Chiaravalle, forse in bicicletta forse in tram. Lì, lungo una strada senza fiori e senza più alcuna speranza, si sdraiò sul prato vicino all'Abbazia, nel gelo, e ingerì dei barbiturici. Morì il giorno dopo al Policlinico. Aveva 26 anni, ed era bellissima. Ha scritto di lei Maria Corti, che la conobbe negli anni dell'università: il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull'orlo degli abissi. Era un'ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili.

Preghiera alla poesia
Oh, tu bene mi pesi l’anima, poesia: tu sai se io manco e mi perdo, tu che allora ti neghi e taci. Poesia, mi confesso con te che sei la mia voce profonda: tu lo sai, tu lo sai che ho tradito, ho camminato sul prato d’oro che fu mio cuore, ho rotto l’erba, rovinata la terra – poesia – quella terra dove tu mi dicesti il più dolce di tutti i tuoi canti, dove un mattino per la prima volta vidi volar nel sereno l’allodola e con gli occhi cercai di salire – Poesia, poesia che rimani il mio profondo rimorso, oh aiutami tu a ritrovare il mio alto paese abbandonato – Poesia che ti doni soltanto a chi con occhi di pianto si cerca – oh rifammi tu degna di te, poesia che mi guardi.

Abbandonati in braccio
Abbandonati in braccio al buio monti m’insegnate l’attesa: all’alba – chiese diverranno i miei boschi. Arderò – cero sui fiori d’autunno tramortita nel sole. Desiderio di cose leggere Giuncheto lieve biondo come un campo di spighe presso il lago celeste e le case di un’isola lontana color di vela pronte a salpare – Desiderio di cose leggere nel cuore che pesa come pietra dentro una barca –Ma giungerà una sera a queste rive l’anima liberata: senza piegare i giunchi senza muovere l’acqua o l’aria salperà – con le case dell’isola lontana, per un’alta scogliera di stelle –


Un destino
Lumi e capanne ai bivi chiamarono i compagni. A te resta questa che il vento ti disvela pallida strada nella notte: alla tua sete la precipite acqua dei torrenti, alla persona stanca l’erba dei pascoli che si rinnova nello spazio di un sonno. In un suo fuoco assorto ciascuno degli umani ad un’unica vita si abbandona. Ma sul lento tuo andar di fiume che non trova foce, l’argenteo lume di infinite vite – delle libere stelle ora trema: e se nessuna porta s’apre alla tua fatica, se ridato t’è ad ogni passo il peso del tuo volto, se è tua questa che è più di un dolore gioia di continuare sola nel limpido deserto dei tuoi monti ora accetti d’esser poeta.

Voce di donna
Io nacqui sposa di te soldato. So che a marce e a guerre lunghe stagioni ti divelgon da me. Curva sul focolare aduno bragi, sopra il tuo letto ho disteso un vessillo - ma se ti penso all’addiaccio piove sul mio corpo autunnale come su un bosco tagliato. Quando balena il cielo di settembre e pare un’arma gigantesca sui monti, salvie rosse mi sbocciano sul cuore: che tu mi chiami, che tu mi usi con la fiducia che dai alle cose, come acqua che versi sulle mani o lana che ti avvolgi intorno al petto. Sono la scarna siepe del tuo orto che sta muta a fiorire sotto convogli di zingare stelle.


La vita sognata
Chi mi parla non sa che io ho vissuto un’altra vita – come chi dica una fiaba o una parabola santa. Perchè tu eri la purità mia, tu cui un’onda bianca di tristezza cadeva sul volto se ti chiamavo con labbra impure, tu cui lacrime dolci correvano nel profondo degli occhi se guardavano in alto – e così ti parevo più bella. O velo tu – della mia giovinezza, mia veste chiara, verità svanita – o nodo lucente – di tutta una vita che fu sognata – forse – oh, per averti sognata, mia vita cara, benedico i giorni che restano – il ramo morto di tutti i giorni che restano, che servono per piangere te.

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