CATERINA BENINCASA

CATERINA BENINCASA
Italia - Siena, 25 marzo 1347 – Roma, 29 aprile 1380
Tratto da Le poetesse mistiche pazze per Dio
La via femminile al Romanticismo nel Medioevo Nemapress edizioni
di Antonetta Carrabs e Iride Enza Funari

"Dicevano di me che fossi come il vino di Siena, molto rosso"

Era il periodo delle Crociate e le città e i villaggi erano pieni di donne sole che sostenevano i poveri e i mendicanti. All’inizio del XIII secolo incominciarono a formarsi veri e propri gruppi comunitari, chiamati beghinaggi. Le beghine mendicanti si spostavano, predicando da un posto all’altro. Non erano né monache, né religiose in senso stretto, né laiche ferventi e ispirate, spesso erano estatiche. Votate interamente a Cristo, mistiche e talvolta eretiche. Erano mulieres religiosae, mulieres pacis, religiosae viventes, pauperes virgines con l’unica fonte di ispirazione per le Scritture. Le beghine non hanno mai chiesto di essere riconosciute come ordine religioso e questo aveva portato a una forte reazione da parte della Chiesa con accuse di eresia e persecuzioni.
"Dicevano di me che fossi come il vino di Siena, molto rosso. Ponetevi in su la mensa della croce ed ine tutti ebri di sangue. Sono stata la ventiquattresima e penultima figlia di Jacopo Benincasa, tintore di pelli, e di mamma Lapa. La mia famiglia era numerosissima e modesta, ma non povera. Nell’anno della mia nascita, nel 1347, ci furono in Europa i primi orrendi segni della peste che farà più di venti milioni di vittime. Anche Siena, la mia città, fu contagiata dai viaggiatori provenienti da Venezia dove attraccavano le navi partite dai porti dell’Asia. Lapa, mia madre, dette alla luce due gemelle, me e Giovanna, ma Giovanna morì quasi subito e io sopravvissi alla morte di mia sorella. Due anni dopo nacque un’altra bambina che chiamarono Giovanna, ma la triste sorte si ripetette così prematuramente anche per lei. Ebbi l’impressione di vivere la vita al posto di qualcun altro e di questo mi rattristai fortemente, accettando così tutte le punizioni, anche fisiche fino ad attribuirmi la responsabilità di ogni pur piccolo errore che trasformai in castigo. A sei anni ebbi la mia prima visione che mi segnò il destino. Accadde mentre stavo percorrendo, in compagnia di mio fratello Stefano, Valle Piatta. Stavamo tornando a casa quando mi apparve Cristo sopra la basilica di San Domenico: era rivestito dei paludamenti pontificali e mi guardava sorridendo dall’interno di una loggia risplendente. Ricordo che era circondato da una folla di personaggi vestiti di bianco. Sono certa di aver riconosciuto S. Paolo, S. Pietro e S. Giovanni. Ero ancora una bambina quando, nelle prediche di fra Tommaso delle Fonti, venni a conoscenza delle austerità degli eremiti e del loro ideale di vita ascetica nel deserto.
 
Intrapresi allora una rigorosa ascesi di stile eremitico. Incominciai a cercare luoghi nascosti, mi disciplinavo con una funicella, pregavo ininterrottamente. Scoprii il valore del silenzio e incominciai a ridurre progressivamente l’alimentazione. Mi flagellavo, dormivo pochissimo, il mio letto era un’asse di legno. Incominciai a mangiare solo pane, acqua e vegetali crudi dall’età di sedici anni. Mia madre ha cercato in tutti i modi di alleviare ogni mio tentativo di autopunizione. Mi impose di dormire con lei in un letto comodo ma io nascosi un pezzo di legno nel letto per potermi pungolare mentre lei dormiva. Ricordo che un giorno, con una provvista di pane, uscii per la porta di Sant’Ansano alla ricerca del deserto. Mi parve di trovarlo in una spelonca, sotto una rupe, poco lontano dalle ultime case di Siena. Mi raccolsi in un’intensa preghiera e capii che il mio deserto fosse la mia casa paterna. Sentii il bisogno di restare sola con Gesù e mi chiusi volontaria¬mente nella mia camera. Ancora una volta i miei familiari non vollero comprendere e mi strapparono dal mio rifugio, obbligandomi alla vita in comune. Mi addossarono i più faticosi e più umili lavori e mi impedirono il raccoglimento, la preghiera e, soprattutto, le penitenze corporali. Decisi di non ribellarmi anzi obbedii docilmente sostituendo alla cella materia¬le una cella spirituale che, con l’aiuto dello Spirito Santo, riuscii a fabbricare nell’intimo della mia mente. Mi costruii una celletta nel cuore, erigendola sulle fondamenta dell’umiltà, con le pareti di speranza, imbiancata di purezza, con lo zoccolo della fede, col soffitto di prudenza, con la finestra dell’obbedienza, la porta della carità, la chiave della povertà, l’ornamento di un crocifisso e come unico mobile un inginocchiatoio. - Fatevi una cella nella mente dalla quale non possiate mai uscire - è quello che consigliai in seguito ai miei discepoli. Mia madre aveva per me progetti terreni. Avrebbe preferito che io mi sposassi e così, dopo tanti diverbi, decisi di tagliarmi i capelli. Quello fu l’atto estremo per dimostrare a tutti la mia irrevocabile scelta. Le persecuzioni familiari cessarono per l’intervento decisivo di mio padre Jacopo, illuminato dall’apparizione di una colomba che si posò sulla mia testa in un momento di preghiera. Desiderai di vestire l’abito di s. Domenico che mi era apparso in una visione. Nel 1363, all’età di quindici anni mi unii al gruppo delle Mantellate, chiamate così per il loro lungo mantello nero che copriva l’abito bianco. Erano donne laiche e benestanti che sotto la guida dei domenicani, pur continuando a vivere in famiglia, praticavano un regime di vita religiosa e povera e prestavano quotidiana assistenza agli indigenti della città. Poco prima di entrare fra le Mantellate, le Domenicane dell’Ordine della Penitenza, fui oggetto di molte insistenze da parte di mia madre Lapa perché voleva che mi decidessi per il matrimonio. Ricordo di aver meditato a lungo su cosa fare. Pensai di imitare Eufrosinala che, fuggendo, si finse maschio e visse murata in un cenobio di religiosi. Pur di entrare nell’ordine dei Predicatori per potermi dedicare alle anime anime morenti, pensai anche di seguire l’esempio di Eufrosinala.

Ero giovanissima e bella e riuscii a vincere le resistenze che l’ordine imponeva per la mia giovane età. La mia dedizione totale alle opere di misericordia destò sospetti e maldicenze fra le mie compagne. Vivevo una duplice vita: nel chiuso delle mura domestiche gioivo delle visioni divine talvolta violente e sempre inebrianti per la presenza vivida del Cristo; fuori, nelle strade della mia città, curavo instancabilmente i derelitti e i malati, con l’amore «uno e medesimo». Non restai chiusa nel chiostro, ma sentii la necessità di muovermi per mostrare la mia abnegazione a Cristo. Le mie giornate erano divise fra la chiesa di san Domenico, la mia casa, l’ospedale della Scala e il lebbrosario di S. Lazzaro, dove mi prodigavo a curare gli infermi anche più ripugnanti. Ricordo che, in quel periodo, all’Ospedale S. Lazzaro non si aveva memoria di un malato più impaziente e ingrato della Tecca. Aveva la lebbra, era intrattabile, smaniosa, per un nulla si adirava con i medici e gli infermieri. Mi raccontarono che vagava nella campagna, suonando un campanello, per annunciare il suo passaggio. Decisi di recarmi a S. Lazzaro, chiedendo di accudirla. Conosco la tua generosità – mi rispose il cappellano dell’ospedale- ma temo che questa volta non ce la farai-
Non mi scoraggiai e andai dalla Tecca. - Buon giorno, Tecca, il Signore ti aiuti! – le dissi. Tecca mi rispose: e a te venga una lebbra peggiore della mia! – mi rispose con rabbia. Poi urlò e mi graffiò a sangue ma io non mi arresi e cominciai ad occuparmi di quella povera lebbrosa, con lo stesso delicato amore con cui Maria unse e profumò i piedi di Gesù. In cambio ricevetti solo sgarbi e male parole. Un giorno arrivai in ospedale in ritardo: avevo le mani fasciate, la lebbra aveva colpito anche me. Quando Tecca mi vide scoppiò in singhiozzi. - Non piangere per me – le dissi- quando il Signore permette che il male ci colpisca, lo fa per prepararci un posto più bello in cielo. Qualche giorno più tardi, dopo essersi riappacificata con Dio e con gli uomini, la povera Tecca, salì in cielo. Le lavai per l’ultima volta le piaghe e l’accompagnai nel suo ultimo viaggio. Al ritorno a casa mi guardai le mani: non avevo un segno, non più un’ulcera. Le mie mani erano miracolosamente guarite. Un giorno, mentre recitavo le mie preghiere, vidi dalla finestrella un mendicante steso all'angolo della via. Faceva molto freddo. Corsi in cucina a prendere del pane. Era molto infreddolito: - Non avresti qualcosa per coprirmi? - mi disse- Mi tolsi il mantello nero della penitenza e glielo diedi.
La notte seguente Gesù mi comparve in visione: Figlia mia, oggi hai coperto la mia nudità: Per questo io, ora, ti rivesto del mantello d'oro della carità. Da allora in poi non soffrii mai più il freddo e anche nel più crudo inverno potevo andare in giro vestita di leggero. Il calore della Grazia mi riparò sempre dal freddo. Ero circondata da uno stuolo di discepoli fedelissimi, godevo di fama di santità presso il popolo, ma avevo anche acerrimi nemici, erano i vecchi compagni di quei peccatori che ero riuscita a recuperare alla Grazia; erano miei nemici anche alcuni religiosi la cui limitatezza non permetteva loro di capirmi. Le voci, i pettegolezzi, le calunnie aumentavano sempre di più col passar del tempo. Un giorno fui cacciata dalla chiesa di S. Domenico. Non mi turbai. Ero così immersa nella preghiera che non mi accorsi che il tempo passava. Non mi accorsi neanche che mi chiamavano, che stessero scuotendomi. I sacrestani dovevano chiudere la chiesa, era buio ormai. Furono con me duri e inflessibili. Decisi di cibarmi soltanto di un po’ d’erba cruda e di acqua di fonte. - Ma come puoi resistere, Caterina?- mi chiedevano- Oh, benissimo, per grazia divina- rispondevo. Da piccola ero golosissima di frutta e, per permettermi di purificarmi da questo difetto, il Signore mi aveva dato il privilegio di sostentarmi di poco. L’ostia consacrata era il nutrimento della mia anima, nessuna anima può vivere senza nutrimento. Non ti sembra un atto di presunzione questo di comunicarti tanto spesso? mi venne apostrofato dal Superiore dei Terziari, durante un interrogatorio. I cristiani primitivi si comunicavano tutti i giorni – risposi con calma assoluta e con sicurezza al lungo interrogatorio. -S. Agostino ha sempre detto “ io non lodo né biasimo chi si comunica tutti i giorni” e se non mi biasima S. Agostino, perché volete biasimarmi voi, padre reverendissimo? Il Superiore dei Terziari, credeva di trovarsi davanti ad un’esaltata, una fanatica, e dovette constatare che io ero umile e rispettosa ma decisa e sicura di me, animata da una fede profondissima e chiara. - Un’ultima cosa, Caterina. Sai cosa dice di te la gente? – mi ripetette- Che tu digiuni in pubblico e ti nutri di nascosto, per alimentare la fama di santità intorno alla tua persona. - C’è una frase del Vangelo, padre reverendissimo – gli risposi- che io ricordo sempre: “non giudicate e non sarete giudicati”. Mi congedò convinto ed edificato. Avevo vinto una dura battaglia.
Ricordo quando andai a far visita a Niccolò Toldo, il giovane condannato a morte. La mia visita lo confortò a tal punto che dalla disperazione passò alla Confessione e si dispose molto bene alla morte. Mi fece promettere che sarei salita con lui sul patibolo. Così feci. La mattina, innanzi alla campana, andai da lui. Ne fu tanto contento. Lo accompagnai a Messa e ricevette la S. Comunione, che non aveva più ricevuta da quando era in carcere. Era sereno; solo gli era rimasto il timore di non essere forte durante l’esecuzione. Andava dicendomi: Stammi vicina; non abbandonarmi. Solo con te morirò contento. Così dicendo, appoggiò il suo capo sulle mie spalle. Io lo consolavo: Coraggio, mio dolce fratello: ben presto giungeremo alle nozze. Tu v’andrai purificato dal sangue dolce di Gesù: il cui nome non deve uscirti dalla memoria. Coraggio! T’aspetto la! Queste parole lo fecero oltremodo contento. Giunse sul patibolo, come un agnello mansueto. Quando mi vide, sorrise e volle che gli facessi il segno della Croce. Ricevuta la benedizione, gli dissi: Giù la testa! Alle nozze, fratello mio dolce! Tra poco avrai la vita eterna! Lui si pose giù con grande mansuetudine. Io gli distesi il collo, mi chinai su di lui e gli ricordai il sangue del¬l’Agnello. La sua bocca non chiamava che Gesù e Caterina. Mi trovai la sua testa, troncata, tra le mani e il mio vestito rosso e profumato dal suo sangue. Ohimé, misera! Rimasi sulla terra, invidiando grande¬ mente la sua sorte! (Lettera 273)
Ho subito spesso le tentazioni della carne. Quando accadeva gridavo: Signore mio dove eri quando il mio cuore era tribolato da tante tentazioni? –
-Stavo nel tuo cuore – mi rispondeva
-Sia salva sempre la tua verità, o Signore, e ogni riverenza verso la tua Maestà; ma come posso credere che tu abitavi nel mio cuore, mentre era ripieno di immondi e brutti pensieri?
-Quei pensieri e quelle tentazioni causavano al tuo cuore gioia o dolore? Piacere o dispiacere?
-Dolore grande e grande dispiacere!
-Chi era che ti faceva provare dispiace¬re se non io, che stavo nascosto nel centro del tuo cuore?
Nella costante contemplazione di Gesù, riuscii con una volontà ferrea a domare il mio corpo al quale concedevo poco sonno e poco cibo e mi punivo con flagellazioni cruente, ripetute tre volte al giorno. Il sollievo arrivava dai favori celesti che mi premiavano e mi confortavano. Molto presto le mie visioni, le mie estasi, la mia vita di penitenza e la carità verso i poveri, gli infermi e i condannati, suscitarono una grande popolarità intorno a me, ma, come era inevitabile, alimentarono anche invidie e contrasti negli ambienti religiosi. Motivo per cui i frati predicatori mi trascinarono più volte, durante le mie estasi fuori della chiesa, lasciandomi inanimata sul sagrato. Altre volte le consorelle, esacerbate dalla mia santità, mi colpirono con calunnie atroci, persino i malati che curavo mi accusarono ingenerosamente. Correva l’anno 1374 quando la peste infuriò anche in Siena. Al mio ritorno da Firenze, mi dedicai completamente alla cura di coloro che erano stati colpiti dalla peste. Gregorio XI era intento a promuovere la crociata verso i Turchi alleatisi coi Tartari. In obbedienza al pontefice e ai suoi superiori, cercai di esercitare la mia influenza per spingere i cristiani al santo passaggio. Firenze intanto si era messa a capo di tutti i nemici della Santa Sede, aveva formato una lega alla quale aveva aderito un numero sempre maggiore di città. Gregorio XI decise quindi di lanciare contro la città e i suoi alleati la scomunica e l’interdetto. Firenze, allarmata per le conseguenze, fece ricorso a me, sapendo quanto io fossi gradita al pontefice e mi mandò da lui, ad Avignone, come ambasciatrice per trattare la pace. Vi giunsi con un gruppo di miei discepoli. Il papa mi ricevette benignamente e accolse le mie richieste. Il mutato governo fiorentino ben presto disconobbe la mia opera mediatrice e riprese le ostilità contro la curia di Avignone. La missione che più mi stava a cuore era riportare il vicario di Cristo alla sua sede naturale, a Roma. Gregorio Xl superò le opposizioni della curia e della sua stessa famiglia, e riconobbe nelle mie parole la manifestazione della divina volontà. Il 16 settembre 1376 il pontefice partì con la sua corte alla volta dell’Italia. Il giorno dopo, anche io, con i miei discepoli lasciai Avignone per Genova. Arrivammo a Varazze e liberai la città dalla peste. Una volta arrivata a Genova, fui ospite di Orietta Scotti dove incontrai il pontefice che, pressato dai suoi, stava per ritornare sulle sue decisioni e lo esortai a proseguire per Roma. Il mio viaggio proseguì verso Siena Ritornai, poi, a Firenze per incarico del papa che desiderava la pace con quella città e rischiai di essere uccisa da alcuni facinorosi durante il tumulto degli ammoniti.
Nel marzo 1378 Gregorio XI morì. Gli succedette Bartolomeo del Prignano, arcivescovo di Bari, primo papa italiano dopo sette francesi. Urbano VI continuò la politica di Gregorio XI, riprendendo le trattative con Firenze. Il 18 luglio finalmente nella città del Fiore, ritornò la pace per la quale avevo tanto lavorato. Tornai nella mia Siena e mi dedicai completamente ai colloqui con Dio. Ai miei segretari dettai il Dialogo della Divina Provvidenza, che mi fu rivelato durante le mie estasi e al quale affidai il mio messaggio di amore per le creature. Sono sempre stata convinta che l’uomo di governo dev’essere umile, una virtù che gli permette, di essere libero e di darsi interamente con grande sollecitudine e con affettuoso amore, al servizio dei sudditi e della patria. Egli deve acquisire la virtù della santa pazienza, quell’atteggiamento interiore dello spirito che dà la capacità di sostenere con dolce fortezza ogni pena, tormento e tribolazione. L’uomo che sale al potere non deve pensare di trovare diletto e riposo, ma deve sapere che troverà dolore, avidità, gelosie, egoismi, intrighi, slealtà, violenze. Il principe e signore si deve vestire della pazienza di Cristo crocifisso, una virtù che vince sempre.
Non ci potrà mai essere un grande e vero capo di governo senza la lotta dolorosa interiore ed esteriore, senza sofferenza, senza sforzo, senza l’abbraccio con la santissima croce, dove ognuno trova l’amore ineffabile, gustando il sangue di Cristo. La grandezza di un principe si deve basare sempre sull’umiltà, solo così si possono fare grandi opere. Una volta che l’uomo é formato al bene e alla giustizia non potrà che compiere azioni giuste e virtuose e questo vale anche per il governante. Ogni problema sociale e politico è un problema morale. Ho dedicato tutta la mia vita all’amore per Cristo, ho cercato di diffondere la sua parola, fino alla mia morte che arriva all’età di trentatré anni, la domenica del 29 aprile del 1380, circondata dall’amore e dalla dedizione dei miei tanti discepoli. Ero in preda a sofferenze indicibili, che sopportavo con eroica pazienza: Figlioli carissimi, non dovete rattristarvi se io muoio, ma piuttosto dovete gioire con me e con me rallegrarvi, perché lascio un luogo di pene per andare a riposarmi in un oceano di pace, in Dio eterno. Vi do la mia parola: dopo la mia morte, vi sarò più utile... dissi loro - Tenete per fermo, o dolcissimi figlioli, che partendomi dal corpo io in verità ho consumata e data la vita nella Chiesa e per la Chiesa santa, la qual cosa mi è singolarissima grazia…la vera gloria è la lode di Dio. Dopo aver ottenuto l’assoluzione generale, e vedendomi ormai prossima alla morte, mi rivolsi al cielo e dissi con un filo di voce: - Signore, raccomando nelle tue mani lo spirito mio! Dolce Gesù. Mi spensi nella mia casetta di via del Papa, oggi Via S. Chiara, a Siena. Finalmente sciolta e libera, la mia anima si congiunse indivisibilmente con il mio sposo che avevo amato per tutta la vita."
Antonetta Carrabs.

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