"Una città nel deserto" di Paolo, detenuto del carcere Sanquirico di Monza.
Paolo è attualmente detenuto nel carcere Sanquirico di Monza. Questa è la storia di un viaggio che ha fatto con la sua ex moglie in Mali, alcuni anni fa. Paolo frequenta il laboratorio di narrazione "Parola liberami!" che tengo da un anno nell'istituto di pena e che ultimamente ha dato vita alla nascita del giornale OLTRE I CONFINI.
Io
e Anna, accomodati piacevolmente sui cuscini nella hall dell’hotel, a Bamakò, sorseggiavamo
del the guardandoci intorno. Eravamo in procinto di partire per Timbuctu. Anna
indossava un lungo abito di cotone chiaro con dei sandali intrecciati, non aveva
il cappello. I suoi capelli castani brillavano intensamente sotto il cocente
sole africano. Eravamo arrivati soltanto da qualche giorno e la sua pelle si
era già colorata. Io indossavo una camicia chiara e pantaloni lunghi da deserto, occhiali da sole e un
cappello bianco. Anna aveva deciso di non coprire il capo. Partimmo per la
nostra destinazione e l’escursione nel deserto in carovana. Viaggiavamo
instancabilmente di giorno e ci accampavamo la notte per dormire. Io ero
terrorizzato dai dromedari, a differenza di Anna che incominciò subito a
cavalcarli. Ricordo la mattina che partimmo con le nostre due guide tuareg che
si sarebbero occupati di allestire l’accampamento e cucinare. Il nostro viaggio
proseguiva senza problemi ma il caldo era tremendo e la sete anche.
Gli animali
trasportavano grandi quantità di latte d’acqua e razioni di carne contenuta in
sacchi di plastica che viaggiavano tutto il giorno al sole. Arrivammo in
prossimità di un villaggio e notai che i cani non smettevano di abbaiare e le
donne si coprivano il volto per nascondersi, solo i bambini rimasero a guardare
fermi, in attesa di qualcosa. Ricordo di aver notato al centro del villaggio
un’norme voragine carica di rifiuti e carcasse di animali. Tutt’intorno
giravano indisturbati enormi ratti che sembravano gatti. Ci avevano detto che
il Mali era abbastanza sporco: quell’immagine ne aveva reso la veridicità.
Meglio allontanarsi da lì. Lontani dal villaggio l’aria ci sembrò più fresca da
respirare. Anna era felice, quasi sognante, amabile. Restava spesso in silenzio.
Il sole era all’orizzonte, l’aria di colore rosso, io e Anna mano nella mano
saliamo su una piccola duna, felici di stare insieme. Il tramonto regalava
sensazioni stupende ma anche tanta tristezza perché sanciva la fine di ogni
giornata. Io e Anna eravamo seduti uno accanto all’altro sulla duna a
contemplare quella distesa di sabbia che avevamo davanti.
Ricordo che Anna
appoggiò la testa sulla mia spalla e mi sorrise. Ci aspettava un lungo viaggio
verso quella città misteriosa, la città di sabbia dove tutto viene coperto
dall’avanzare inesorabile del deserto. Di notte la temperatura precipitava di
quasi trenta gradi e noi due ci abbracciavamo stretti nel sacco a pelo mentre
il vento del deserto sferzava la tenda e i tuareg restavano per ore a parlare
attorno al fuoco fumando fino a notte fonda prima di avvolgersi nelle coperte e
dormire uno accanto all’altro. Via via che la mattina trascorreva, il paesaggio
assumeva una tale morbidezza nelle forme da lasciarci meravigliati. Di tanto in
tanto, durante il nostro cammino, ci imbattevamo in uomini dalla pelle scura in
groppa ai cavalli. Erano uomini orgogliosi, con gli occhi penetranti, la faccia
coperta da veli color indaco. Anna si impegnava spesso a conversare in francese
con il giovane tuareg per chiedergli notizie sulla città di Timbuctu che
avremmo raggiunto di lì a poco. Il giovane le raccontava che la città era vasta
e piatta e molto pittoresca, ma soprattutto buia perché le strade erano state
costruite attraverso le case. Le raccontò del grande mercato ricco di mercanzie
di ogni tipo che provenivano dagli stati confinanti. Anna era molto attenta,
forse rapita dal fascino del giovane, forse dalla sua voce. Ricordo che spesso
si rannicchiava dolcemente accanto a me e poggiava il viso nella piega del mio
collo, baciandomi con tenerezza. Io le restituivo il bacio sulla fronte. Lei
rideva felice. Arrivammo finalmente in prossimità della città. Ricordo che il
terreno era una desolata distesa di sabbia, più avanti l’azzurro stava
diventando bianco, quasi incandescente. Stavamo già attraversando, senza
rendercene conto, le mura di fango grigie della città di Timbuctu. I bambini,
tanti ci vennero incontro urlando. Intanto una nuvola di polvere si alzava al
nostro passaggio. Oltrepassammo un grande cancello e sostammo in uno spazio
aperto. Io e Anna con fatica cercammo di ricavarci un varco fra la folla che
intanto era accorsa. Ci addentrammo nel cuore della città, un vero labirinto.
Le strade erano state costruite in modo tale che attraversandole alla fine ti
trovavi sempre davanti ad un vicolo cieco chiuso alla fine con un muro. Intorno
a noi il silenzio. Tutt’intorno solo pareti bianche, sabbia immobile e tanto
cielo azzurro. In fondo ad una stradina trovammo la targa di legno su cui c’era
scritto: Hotel Boctou e una freccia che puntava a sinistra. La nostra stanza
era semplice, ma la notte era fatta di stelle, tante e luminose. La città non
si vedeva, intorno avevamo solo un oceano di sabbia e un silenzio assoluto. Anna
e io eravamo felici. Il deserto ci riempiva il cuore. Ci affascinava la
solitudine e la vicinanza con l’infinito.
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