La narrazione che seduce di Ascanio Celestini
Ascanio Celestini è attore teatrale,
regista cinematografico, scrittore e drammaturgo. Alcuni anni fa ho avuto modo
di intervistarlo per la rivista Mbnews, in occasione del suo spettacolo Scemo
di guerra, al teatro Binario 7 di Monza.
La scenografia è essenziale, anzi
minima: una sedia rossa, poche luci e una parete grigia che racchiude un
piccolo spazio dove Lui, il cantore popolare, racconta la sua storia. Il
monologo è intenso, torrenziale, ricco di suggestioni immaginifiche. I
toni sono distesi, a volte divertenti, altre addirittura commoventi. Celestini
è un grande fabulatore, seduce narrando. Il suo linguaggio semplice, dal ritmo
musicale, apre scenari inimmaginabili alla fantasia di ognuno. I personaggi si
intrecciano in un tempo che diventa circolare, fra realtà e inverosimile. La
memoria testimonia la guerra, i bombardamenti su Roma, il rastrellamento del
Quadraro, i fascisti, gli americani, i tedeschi e un bambino che rischia
di morire per una cipolla. E’ il 4 giugno 1944: è il giorno della liberazione.
“ Scemo di guerra”: uno spettacolo che diventa anche fiaba popolare e che
va dritto al cuore.
Mario Luzi, in un’intervita all’Unità manifestò la sua preoccupazione per il
tracollo della parola, affermando: “Le parole hanno perso il loro
corrispondente, sembra quasi di vedere un orologio impazzito in cui le lancette
non riescono più a segnare l’ora giusta”. Lei, che è uno degli ultimi
interpreti della parola, è d’accordo con il poeta?
Una parola, un gesto scollegato dalla sua funzione significa molto meno. E’ così per tutte le cose. Un esempio? Il cibo, il vino si distinguono per la loro provenienza determinata da un territorio che si caratterizza per la sua specifica cultura. Per la parola vale lo stesso. Il senso culturale proviene dal significato che gli attribuiamo.
Il suo, è teatro della narrazione, Lei, con i suoi spettacoli, cerca di rendere la parola alla parola?
Una parola, un gesto scollegato dalla sua funzione significa molto meno. E’ così per tutte le cose. Un esempio? Il cibo, il vino si distinguono per la loro provenienza determinata da un territorio che si caratterizza per la sua specifica cultura. Per la parola vale lo stesso. Il senso culturale proviene dal significato che gli attribuiamo.
Il suo, è teatro della narrazione, Lei, con i suoi spettacoli, cerca di rendere la parola alla parola?
L’oralità, più che legata alle parole, è
legata alle immagini. Il passante, nell’indicarti la strada, non accenna ad un
discorso urbanistico, ma si serve delle immagini per descriverti il percorso.
Questo vale anche quando raccontiamo una storia, nel farlo, ci serviamo delle
immagini. Anche colui che ascolta si serve delle immagini per comprenderla. Il
racconto di qualsiasi episodio è fatto di immagini che scorrono. Il mio teatro,
più che teatro di parole, è teatro di immagini.
Attraverso le sue rappresentazioni Lei
denuncia le condizioni di vita dell’altra Italia, quella dei perdenti, dei
lavoratori sfruttati ed emarginati, dei menomati. Il suo, è anche teatro
politico?
La politica è soprattutto
idee: tutto il teatro è politico, anche quello dei Legnanesi è teatro politico
e non è da meno il teatro comico. C’è sempre una scelta politica rispetto ad un
avvenimento pubblico. Fare teatro vuol dire soprattutto confrontarsi con la
polis. Io non ho grande fiducia nella politica dei partiti. Ricordo che la mia
generazione, intorno ai quindici, sedici anni aveva interesse spiccato per la
vita politica. Oggi la politica, più che perseguire ideali, tende ad esercitare
il suo potere, gestisce le “cose”.
In Romania un critico le ha detto che il suo non è teatro perché non ci sono i personaggi. Lei gli ha risposto che invece i suoi spettacoli sono pieni di personaggi, ognuno deve immaginarseli. E’ anche per questo che Lei ama la radio?
In Romania un critico le ha detto che il suo non è teatro perché non ci sono i personaggi. Lei gli ha risposto che invece i suoi spettacoli sono pieni di personaggi, ognuno deve immaginarseli. E’ anche per questo che Lei ama la radio?
Si, è vero. La radio è un mezzo
senza equivoci. Possiamo stare ore seduti davanti alla TV e non stare fermi
davanti alla radio. E’ più facile restare ipnotizzati dall’oggetto TV, è come
soffermarsi davanti ad un camino acceso. La radio, invece, ci permette di
ascoltare e, nello stesso tempo fare altro. La radio ci permette di giocare con
le immagini.
La sua, è drammaturgia che nasce dalla
verità dei fatti?
No, non nasce esclusivamente dalla
verità dei fatti. La verità la si celebra in tribunale, in teatro mi interessa
la concretezza, più che la verità. Io penso sia molto più importante ciò che si
comunica, il racconto, la storia nella sua piena concretezza, più che la verità
fedele a se stessa. Oggi ricorre la morte di mio padre e, riascoltare la sua
voce alla fine dello spettacolo, mi emoziona molto. La voce è un elemento
impalpabile, è una delle cose che perdiamo quando una persona scompare e,
poterla preservare, è un patrimonio di ricordi e sentimenti.
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