ANTONIA POZZI - Oh rifammi tu degna di te, poesia che mi guardi.


ANTONIA POZZI
(Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938)

Ho imparato che cosa sia il dolore. Tu non immagini che cosa fosse lui per me. Io avevo avuto la fortuna di incontrarlo nell'età inquieta in cui tutto il nostro essere sboccia e anela alla vita, in cui ogni influenza esterna lascia nell'anima un'influenza indelebile, in cui ci torturiamo ricercando l'inizio della nostra via e l'indirizzo del nostro cammino nel mondo ... Con la parola e con l'esempio egli mi ha dato uno scopo e una fede: mi ha insegnato a guardare più in alto e più lontano; mi ha additato la via per diventare più buona.” Così descrive la poetessa il suo immenso dolore, in una lettera alla nonna. Un dolore immenso, lancinante, un dolore per la vita e per l'amore che la porta giovanissima ad uscire di scena. In silenzio.
“Non sono né triste né lieta: sono una forma di sensazioni indefinite. Sempre così smisuratamente perduta ai margini della vita reale: difficilmente la vita reale mi avrà e se mi avrà sarà la fine di tutto quello che c’è di meno banale in me.” AP
Antonia Pozzi è una delle voci poetiche a me più care. La sua è una poesia che si mimetizza costantemente con l’umano, con lo spirito del tempo, del luogo e, soprattutto, della natura;  una poesia che leviga sempre le parole e che non grida la sua materia o la sua linea d’avanguardia; una poesia che è continua intermittenza dell’Essere. Il suo destino entra a far parte del circuito lirico ossessivo del novecentismo in cui tutta l’esistenza è in combutta con i fantasmi freudiani, con il sogno-incubo di una vita che non si realizza e che precipita. Antonia Pozzi vive un incessante dramma esistenziale che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica.
 
«Se le parole sapessero di neve / stasera, che canti - / e le stelle / che non potrò mai dire...»
 
 
Dall’aspetto minuto. Antonia era delicatissima. Cresce in un ambiente colto e raffinato: il padre Roberto Pozzi, avvocato già noto a Milano, la contessa Lina, sua madre, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Nel 1922, non ancora undicenne, frequenta  il Liceo ginnasio Manzoni, diplomandosi nel 1930. Poi gli studi universitari alla Statale di Milano. Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia e nel 1927, durante  la prima liceo. Antonia si innamora del suo professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi dal quale attinge l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene.  Sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre.
La cometa
Quel mio amore per lui aveva ali di cera
lunghe le ali sembravano eterne
battevano il cielo sicure, sfioravano picchi,
puntavano al sole con nervature nervine.

Fuse le ali ormai mi ricrescono dentro,
soltanto ora perdute mi diventano vere,
e ai cuori incauti grido: la passione è un fantasma
troppo importante, uomini, per potersi incarnare.

Chiomate vaganti comete di Halley, presagi
disastri prodigi che infiammano e gelano il sangue,
nessuno osi fissarvi, si arrischi a sfiorare
coaguli di pura lontananza - morgane.
Nel 1933, non secondo il cuore, ma secondo il bene, scriverà Antonia, rinunciando ai suoi sentimenti. Il ricordo di questo amore resterà incancellabile dalla sua anima. Nel 1930 Antonia si iscrive all’Università - facoltà di Lettere e Filosofia. I suoi maestri: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio. Frequenta il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi e si laurea, con lode il 19 novembre 1935, con una tesi sulla formazione letteraria di Flaubert. Colta, piena di curiosità, intelligente. Coltiva l’amore per la montagna, fin dal 1918, quando incomincia a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna. Si avventura in lunghe passeggiate, scalando le rocce alpine. Vive esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini. Nel 1931 va in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, ma sembra essere stata quasi costretta dal padre, che intendeva allontanarla da Cervi; nel 1934 visita la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scopre quel mondo di civiltà e di umanità tanto amato e studiato dal suo professore. Fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca. Intanto è divenuta maestra in fotografia. Non era tanto il desiderio di apprenderne la tecnica, quanto il bisogno di carpire quel sentimento nascosto delle cose, delle persone, della natura che l’obiettivo può svelare, restituendo loro il senso di eternità che la realtà, a volte, riesce a celare. I suoi album sono vere pagine di poesia in immagini.
 
Era il 3 dicembre del 1938. Quel giorno, come tanti altri, si recò all'Istituto Tecnico «Schiaparelli» di Milano, dove insegnava. A metà mattina chiese di uscire prima dalla scuola. Si diresse a Chiaravalle, forse in bicicletta forse in tram. Lì, lungo una strada senza fiori e senza più alcuna speranza, si sdraiò sul prato vicino all'Abbazia, nel gelo, e ingerì dei barbiturici. Morì il giorno dopo al Policlinico. Aveva 26 anni, ed era bellissima. Ha scritto di lei Maria Corti, che la conobbe negli anni dell'università: il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull'orlo degli abissi. Era un'ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili.

La poesia diviene rifugio e sollievo

Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite: le aspettative dei genitori, le grandi speranze per i figli di talento.  L’intelligenza è un grande peso, tante volte avrei voluto provare l’ebrezza della mediocrità. Ed invece sin dall’infanzia il controllo paterno ha cercato di trascinarmi con forza nell’universo delle convenzioni sociali, del pubblico riconoscimento, delle relazioni mondane. Io, invece, sognavo una vita diversa, fatta solo di terra, di cielo e di vento. Negli spazi chiusi dei grandi saloni da ballo mi sento soffocare, nel clamore della città cerco il riparo di un albero. La Natura è per i credenti segno di Dio. Per me, è un monito alla mia finitezza. Alla Natura tendo con tutta la mia anima quando mi stendo nei prati intorno a Pasturo. Con le mani stringo i cespi d’erba: io sono come loro, sento sopra di me passare il vento, senza potermi tuttavia staccare dalla terra ed abbandonarmi a lui. Mi sono illusa che il mio vento vitale fosse l’Amore. Che fosse ciò che di più naturale sia concesso ai mortali. Invece nulla è più umanamente innaturale di due corpi ben vestiti che si incontrano per un appuntamento. Anche l’Amore è ormai una convenzione con regole ben precise, e come ogni convenzione, è soggetto a dei limiti imposti dal contesto. Nel mio caso, è stata la mia origine il maggiore ostacolo, o meglio, la morale altoborghese che mai avrebbe accettato la relazione con un mio professore. Che importa se due anime si ritrovano a condividere gli stessi pensieri, la stessa forza intellettuale? Nel mio Amore mi sono sentita Natura, fino a quando i rovi sono cresciuti dal mio cuore e mi hanno immobilizzata. Con la fine dell’Amore sono finite anche le mie speranze. Quando si ha un groviglio di spine al posto del cuore non si può accogliere la vita: l’anima è entrata sulla via del morire. L’amore deluso ha allontanato da me anche la speranza della maternità. Spesso, mio figlio mai nato, ti ho immaginato dentro di me, con così tanta intensità ti ho sognato, da sentirti quasi muovere. Figlia soffocata, poetessa ammutolita, sposa rifiutata e madre potenziale, sono condannata a rimanere in riva alla vita. Arida, come la terra sotto la neve.

Preghiera alla poesia
Oh, tu bene mi pesi l’anima, poesia: tu sai se io manco e mi perdo, tu che allora ti neghi e taci. Poesia, mi confesso con te che sei la mia voce profonda: tu lo sai, tu lo sai che ho tradito, ho camminato sul prato d’oro che fu mio cuore, ho rotto l’erba, rovinata la terra – poesia – quella terra dove tu mi dicesti il più dolce di tutti i tuoi canti, dove un mattino per la prima volta vidi volar nel sereno l’allodola e con gli occhi cercai di salire – Poesia, poesia che rimani il mio profondo rimorso, oh aiutami tu a ritrovare il mio alto paese abbandonato – Poesia che ti doni soltanto a chi con occhi di pianto si cerca – oh rifammi tu degna di te, poesia che mi guardi. 
Profetica appare la sua meravigliosa poesia

Guardami, sono nuda:
Guardami: sono nuda. Dall’inquieto
languore della mia capigliatura
alla tensione snella del mio piede,
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color d’avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare. Solo un languido
palpito azzurro sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
è la curva dei fianchi, ma i ginocchi
e le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.
Oggi, m’inarco nuda, nel nitore
del bagno bianco e m’inarcherò nuda
domani sopra un letto, se qualcuno
mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra
starò, quando la morte avrà chiamato.
Palermo, 20 luglio 1929

Abbandonati in braccio
Abbandonati in braccio al buio monti m’insegnate l’attesa: all’alba – chiese diverranno i miei boschi. Arderò – cero sui fiori d’autunno tramortita nel sole. Desiderio di cose leggere Giuncheto lieve biondo come un campo di spighe presso il lago celeste e le case di un’isola lontana color di vela pronte a salpare – Desiderio di cose leggere nel cuore che pesa come pietra dentro una barca –Ma giungerà una sera a queste rive l’anima liberata: senza piegare i giunchi senza muovere l’acqua o l’aria salperà – con le case dell’isola lontana, per un’alta scogliera di stelle –
Un destino
Lumi e capanne ai bivi chiamarono i compagni. A te resta questa che il vento ti disvela pallida strada nella notte: alla tua sete la precipite acqua dei torrenti, alla persona stanca l’erba dei pascoli che si rinnova nello spazio di un sonno. In un suo fuoco assorto ciascuno degli umani ad un’unica vita si abbandona. Ma sul lento tuo andar di fiume che non trova foce, l’argenteo lume di infinite vite – delle libere stelle ora trema: e se nessuna porta s’apre alla tua fatica, se ridato t’è ad ogni passo il peso del tuo volto, se è tua questa che è più di un dolore gioia di continuare sola nel limpido deserto dei tuoi monti ora accetti d’esser poeta.
Voce di donna
Io nacqui sposa di te soldato. So che a marce e a guerre lunghe stagioni ti divelgon da me. Curva sul focolare aduno bragi, sopra il tuo letto ho disteso un vessillo - ma se ti penso all’addiaccio piove sul mio corpo autunnale come su un bosco tagliato. Quando balena il cielo di settembre e pare un’arma gigantesca sui monti, salvie rosse mi sbocciano sul cuore: che tu mi chiami, che tu mi usi con la fiducia che dai alle cose, come acqua che versi sulle mani o lana che ti avvolgi intorno al petto. Sono la scarna siepe del tuo orto che sta muta a fiorire sotto convogli di zingare stelle.
La vita sognata
Chi mi parla non sa che io ho vissuto un’altra vita – come chi dica una fiaba o una parabola santa. Perchè tu eri la purità mia, tu cui un’onda bianca di tristezza cadeva sul volto se ti chiamavo con labbra impure, tu cui lacrime dolci correvano nel profondo degli occhi se guardavano in alto – e così ti parevo più bella. O velo tu – della mia giovinezza, mia veste chiara, verità svanita – o nodo lucente – di tutta una vita che fu sognata – forse – oh, per averti sognata, mia vita cara, benedico i giorni che restano – il ramo morto di tutti i giorni che restano, che servono per piangere te.
Il 2 dicembre 1938 durante un’escursione: Sono come un velo d’acqua sospeso su di un masso in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora e ancora.
Mi siedo accanto alla finestra. Tutto nella stanza è dorato: il ricco lampadario di cristallo, le cornici dei dipinti alle pareti, la sponda d’ottone del letto. Ma come sono meschini questi oggetti a confronto con ciò che vedo fuori. Ha iniziato a nevicare. È sorprendente la fragile bellezza dei fiocchi di neve, così delicati ma insieme capaci di dominare il paesaggio invernale. Così mi sento io, un fiocco danzante nella bufera, bellissimo nel suo volo, ma destinato a cadere a terra.
 
Forse la vita è davvero quale la scopri nei giorni giovani: un soffio eterno che cerca di cielo in cielo chissà che altezza. Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato e non piangete, perché ora io sono in pace. Se le mie parole potessero essere offerte a qualcuno questa pagina porterebbe il tuo nome. (Epigrafe posta da Antonia Pozzi alla sua raccolta di poesie)

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