Il deodara di Aurelia Josz, nel Giorno della Memoria.
Il 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria per commemorare le vittime dell'Olocausto. Voglio ricordare Aurelia Josz, una delle tante vittime della shoah.
La Josz aiutò tante altre donne, creando un'opportunità di studio vicina alla realtà contadina e inaugurando la prima scuola di pratica femminile in Italia l'8 dicembre del 1902 a Milano per una trentina di orfane fra i 13 e 15 anni, ospiti al Palazzo delle Stelline di Corso Magenta. Il racconto di Aurelia è pubblicato nel mio libro Ribellioni edito da Nemapress. Diverse sono le rappresentazioni teatrali che ho promosso in questi anni per non dimenticarla. La Scuola di Agraria del Parco di Monza dovrebbe custodirne la memoria: una lapide che la ricorda è ancora visibile presso la scuola. Spero che siano le istituzioni monzesi a ricordarla come davvero merita.
La Josz aiutò tante altre donne, creando un'opportunità di studio vicina alla realtà contadina e inaugurando la prima scuola di pratica femminile in Italia l'8 dicembre del 1902 a Milano per una trentina di orfane fra i 13 e 15 anni, ospiti al Palazzo delle Stelline di Corso Magenta. Il racconto di Aurelia è pubblicato nel mio libro Ribellioni edito da Nemapress. Diverse sono le rappresentazioni teatrali che ho promosso in questi anni per non dimenticarla. La Scuola di Agraria del Parco di Monza dovrebbe custodirne la memoria: una lapide che la ricorda è ancora visibile presso la scuola. Spero che siano le istituzioni monzesi a ricordarla come davvero merita.
Aurelia
Josz
Aurelia
Josz Firenze 1869 - Auschwitz 1944
«La Signorina è piccola, magra e
pallida, vestita molto semplicemente» - così scriveva Alice Hallgarten
Franchetti di Aurelia Josz, da lei particolarmente
amata. Si erano conosciute a Milano nel gennaio 1904, tutte e due appassionate
promotrici della cultura e dell'emancipazione femminile. Aurelia era figlia dell'ungherese
Lodovico Josz, triestino di origini ungheresi
e di Emilia Finzi, di colta famiglia ebraica. Diplomatasi a Firenze in
lettere italiane presso il Regio Istituto superiore di Magistero femminile,
Aurelia fu molto influenzata dal clima cosmopolita della sua città che favoriva
una mentalità progressista e aperta ai problemi della condizione femminile. A
ventun anni si trasferì a Milano, per insegnare nella scuola Normale “Gaetana
Agnesi” dove, nel 1906 divenne titolare della cattedra di storia e geografia
che mantenne fino al 1920. Ideò nuove metodologie didattiche per catturare
l'attenzione delle allieve, utilizzando il teatro e realizzando con materiali
cartacei, insieme a loro, un “museo” geografico e antropogeografico: sul suo
innovativo metodo e la sua pratica educativa scrisse due manuali scolastici che
riscossero un notevole successo: La storia di Roma ad uso delle scuole
secondarie secondo i vigenti programmi (1894) e “ la storia d’Italia nel
medioevo conforme ai programmi governativi delle scuole complementari e
tecniche” (1899). Nel 1902 fondò la prima Scuola pratica
femminile di agricoltura nell'orfanotrofio della Stella a Milano che verrà
trasferita in una sede autonoma a Niguarda nel 1905 e che nel maggio 1909 Ada
Negri presenterà con un memorabile discorso in occasione della «inaugurazione
dei nuovi locali della scuola ingrandita e abbellita» come scrisse la stessa
Josz che ne fu organizzatrice e direttrice a titolo gratuito fino al 1931, in
parte sostenuta finanziariamente dalla “Società Umanitaria associazione
milanese di ispirazione socialista fondata nel 1893. Particolare attenzione rivolse alle
orfane interne al convitto ma la scuola ebbe anche allieve esterne, tra cui le
figlie dei piccoli proprietari terrieri, spesso destinate a rimanere chiuse tra
le mura di casa o a esercitare l'insegnamento, magari senza una vera vocazione.
Convinta della necessità di una visione moderna dell'agricoltura, la Josz
chiamò a insegnare i più importanti agronomi italiani e istituì molti corsi,
tra cui bachicoltura e apicoltura, di particolare successo; nel 1921 fu la
volta del primo Corso magistrale agrario per maestre rurali. Nel 1905 compì un
viaggio in Svizzera, Inghilterra, Francia e Belgio per verificare lo stato
dell'educazione agraria femminile, su cui tenne al III congresso dell'Educazione femminile di Milano nel settembre
1906 una relazione in cui, tra l'altro, Aurelia apprezza particolarmente «le
scuole pratiche agricole del Belgio» che si propone «di imitare nella prima
scuola pratica agricola femminile italiana, la scuola milanese di Niguarda
[...] ove con un biennio di vita collegiale spesa tra lo studio e il lavoro
pratico nel campo sperimentale, nel giardino, nel caseificio, nella bigatteria,
nel pollaio, lavoro fortificatore dei muscoli e dei nervi, le fanciulle si
preparano al disimpegno di tutti gli uffici di massaia».
Il valore del lavoro agricolo e di un
ritorno alla terra era un tema d'attualità nella cultura assediata dalla
rivoluzione industriale, ma anche un tema dell'ebraismo sionista. Aurelia aderì
al Gruppo sionistico milanese di Bettino Levi, in qualche modo sincretizzando
la sua fede sionista con quella nella cultura, nell'impegno e nel progresso,
così come fecero tante altre ebree italiane dell'epoca, indipendentemente dalla
loro osservanza religiosa, che ebbero caro anche un altro tema sostenuto dalla
Josz: quello della pace. La scuola, che inizialmente il fascismo aveva
sostenuto, perché compatibile con il suo progetto di formazione per le “massaie
rurali”, venne dal regime progressivamente emarginata e chiusa nel 1930-1931,
sia per ostilità nei confronti della Josz, sia per evitare una possibile
concorrente delle scuole rurali istituite dal regime. Verrà riaperta nel 1933,
affidata però ad una nuova direttrice vicina al regime. Dopo alterne vicende,
la scuola venne trasferita nel 1957 nella Cascina Frutteto nel Parco di Monza,
dove tuttora risiede. Nella prima metà degli anni Trenta
impiantò, in soli sei mesi, un'altra scuola agraria a Sant'Alessio in provincia
di Roma Il governo fascista, che le aveva dato l'incarico, inaugurò la scuola
come fosse la prima del genere, escludendo la Josz e affidando il nuovo
istituto ad un'altra direttrice più gradita; inoltre tolse i finanziamenti
statali alla scuola di Niguarda e l'incarico di direttrice ad Aurelia che aveva
rifiutato la tessera del partito fascista. Nel 1931 la Josz si chiuse in un
progressivo isolamento, lasciando infine nel 1936 l’insegnamento alla scuola
normale per non dovere fare il giuramento al fascismo e dedicandosi alla scrittura di due saggi:
sul poeta Boiardo e sul filosofo Boezio,
interpretati alla luce della sua vicenda personale, mentre sull’opera cui aveva
dedicato la sua vita scrisse: “ La donna
e lo spirito rurale: storia di un’idea e di un’opera”. Dopo l’approvazione delle leggi razziali
da parte del fascismo nel 1938, Aurelia Jos rifiuta di espatriare e resta sola
alla morte del fratello Italo, importante pittore, avvenuta il 1 dicembre 1942.
Dopo l’8 settembre 1943 dapprima
raggiunge la sorella Valeria ad Alassio, loro usuale luogo di villeggiatura.
Non essendo in grado, per l’età avanzata e per una recente frattura ad un
braccio, di seguire la famiglia che affrontava l’espatrio clandestino in
Svizzera, trovò rifugio in un convento, ad Alassio, ma venne comunque arrestata
il 15 aprile 1944 e condotta nelle carceri di Marassi(Genova) e da l’
deportata, prima al campo di concentramento di Fossoli, poi al campo di
sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove giunse, dopo un viaggio nei vagoni
piombati, il 30 giugno 1944.Venne uccisa, durante le selezioni iniziali, il
giorno dopo il suo arrivo. La
Signorina è piccola, magra e pallida, vestita molto semplicemente così scriveva il 1° marzo 1906 Alice
Hallgarten Franchetti di Aurelia Josz. Aurelia: Mi
chiamo Aurelia Josz. Sono nata a Firenze il 3 agosto del 1869 da Lodovico Josz
ed Emila Finzi. Mio padre era triestino e proveniva
da una famiglia ebraica, con origini ungheresi. Il nonno paterno era Bernardo
Josz. Veniva dalla città di Groscanisza. Si era trasferito a Trieste dove aveva
sposato Rosa Romanin Jaccur. La nonna era un’insegnante di italiano nella
scuola ebraica di Trieste, nipote del poeta Salomone Fiorentino, di origini
senesi.
Mio
padre Lodovico ha sempre coltivato un forte sentimento di italianità. Aveva
deciso, da ragazzo, di eludere gli obblighi militari per non dover combattere
contro gli italiani, e si era trasferito insieme alla nonna Lorena a Firenze,
dove riuscì a vivere grazie all’arte dell’incisione del bulino, vincendo anche
l’appalto per la realizzazione dei timbri postali. Poi il matrimonio con mia
madre Emilia, maestra, ebrea, di origini ferraresi, proveniente da una solida
famiglia borghese. Dalla loro unione nacquero quattro figli: io, Aurelia la
primogenita, i miei fratelli Livio e Italo e Valeria, la più piccola. A soli
trentasei anni mia madre morì di parto nel mettere alla luce Valeria. Avevo
soltanto quattordici anni. La mamma, morendo, mi aveva lasciato fra le braccia
una bambina di cinque giorni. Da allora mi occupai di lei. Fra di noi si
stabilì un legame molto forte che durò nel tempo. Mio padre Lodovico è stato il
mio grande punto di riferimento. Oh, quanto l’adoravo! L’ho reso partecipe e
giudice di ogni mia opera. La sua approvazione era per me il mio scudo. Nei suoi
riguardi ho sempre nutrito profonda stima e venerazione. Compii i miei studi a
Firenze presso l’Istituto Superiore di Magistero femminile. Mi diplomai in lettere italiane, nel 1890. Avevo
ricevuto validi insegnamenti da Antonio Zardo ed Enrico Nencioni, i miei
maestri. La possibilità di ricevere un’istruzione di livello superiore
rappresentava, all’epoca, una vera condizione di privilegio e di eccezionalità.
Gli studi rafforzarono la mia propensione verso l’aggiornamento e il confronto
sui modelli europei. Gli anni trascorsi a Firenze furono un’occasione di
riflessione sulla condizione femminile.
Ero convinta che il femminismo buono e vero non fosse quello che tendeva a
snaturare le tendenze femminili, ma ad evolverle e ad applicarle adeguatamente:
snaturarle sarebbe stata violenza e indubbia cagione di infelicità. Avevo soltanto ventun anni quando mi
trasferii a Milano. Ero stata incaricata, con D.M. del 3 ottobre del 1890,
nelle classi aggiunte preparatorie della R. Scuola Normale Gaetana Agnesi, dove
vi rimasi fino al 1920. Il mio stipendio era di milleduecento lire annue.
Milano si era accreditata il ruolo di capitale
morale. Viveva una realtà dinamica e
metropolitana. Le era stata riconosciuta un’egemonia economica sul resto
d’Italia. Aurelia si sentii subito in sintonia con il clima di operosità che si
respirava. La città era un cantiere in perenne evoluzione. Una fucina di idee,
di esperimenti. Un centro di richiamo internazionale sempre in anticipo sul
futuro. Milano dimostrava una
capacità di rinnovamento, con la
costruzione di numerose opere pubbliche che ne facevano una città moderna e ben
collegata. Il centro storico, con la sua piazza del Duomo, aveva cambiato
l’aspetto dopo l’abbattimento dell’isolato quattrocentesco del Coperto dei
Figini; la costruzione della Galleria Vittorio Emanuele che, con il suo
passaggio coperto in vetro, tanto richiamava il modello parigino. E poi la
Piazza della Scala, il Castello Sforzesco, restaurato da Beltrami, la piazza
Cordusio che proseguiva lungo corso Sempione e il nuovo parco progettato da E.
Alemagna. E ancora la via Dante con la sfilata dei suoi eleganti negozi, tanto
cari alla borghesia milanese, il Naviglio, con la sua copertura realizzata nel
1931; l’Università Bocconi, la nuova Stazione Centrale, costruita tra
dall’architetto Stacchini. La città si proiettava verso una dimensione europea
e moderna a cui si aggiungevano la costruzione degli ospedali e la
moltiplicazione degli edifici scolastici. Una città in gran fermento anche per
le sue attività culturali, per i progressi dell’editoria che, nel 1886, vide la
nascita del Corriere della Sera, sovvenzionato dall’industriale cotoniero B.
Crespi, e del Secolo. Milano viveva
anche del mito di essere una città felice per i facili guadagni, tanto che i
lavoratori dei campi, colpiti dalla crisi agraria, incominciavano ad
abbandonare le proprie terre per venire in città a cercare fortuna.
Aurelia: Ero già abbastanza avanti con gli anni quando ritornai come supplente presso l’Istituto Magistrale C.Tenca. Affrontavo ogni esperienza con entusiasmo e convinzione. La mia determinazione non si è mai spenta. Ricordo le parole del prof. De Angeli, il preside della scuola C. Tenca: << Ho ammirato l’umiltà e l’abnegazione di un’eremita insegnante che per solo amore della gioventù si adatta ad un sacrificio pur di aiutare la scuola già da tanti anni beneficiata e onorata dell’opera sua di educatrice>>. Durante quegli anni ebbi modo di verificare i punti deboli della didattica tradizionale, spesso troppo teorica, lontana dalla realtà e poco capace di coinvolgere gli alunni. Ero fermamente convinta che, la centralità dell’esperienza diretta, fosse un irrinunciabile momento formativo in grado di rendere l’apprendimento concreto, graduale e piacevole. Divulgai le mie proposte di riforma con interventi pubblici e mi dedicai anche alla stesura e pubblicazione di manuali scolastici innovativi. Ero sempre più consapevole che l’insegnamento fosse una missione perché contribuiva a formare le nuove generazioni a cui trasmettere un patrimonio di sapere, ma soprattutto un’eredità di valori spirituali. La passione ha, quindi, caratterizzato tutta la mia vita. La ricerca mi ha reso instancabile e combattiva. Sempre. Ma il mio grande amore è stato quello per la Scuola Pratica Agricola Femminile per la quale lavorai gratuitamente come organizzatrice e direttrice dal 1901 al 1931. Fu la mia impresa più grande. Non aveva precedenti, in Italia. Nasceva ispirandosi a modelli europei. Fu la mia creatura. Lavorai senza tregua e con orgoglio. Feci molti viaggi all’estero per documentarmi. Scomodai uomini di potere e coinvolsi nella mia causa personalità di rilievo dell’ambiente milanese e lombardo ed esponenti del mondo femminista ed intellettuale. Volevo trasmettere un pensiero nuovo negli ambienti rurali, nelle professioni legate alla terra. Volevo conquistare il pubblico femminile soprattutto per agevolare le donne nella possibilità di intraprendere carriere nuove e più remunerative.
In quel periodo nel resto dell’Italia pesava una forte discriminazione che escludeva la donna dal voto e dalle professioni liberali, penalizzandola anche nella retribuzione salariale. Fu in quel clima che nel 1882 nacque il Partito Operaio Italiano. E, dieci anni dopo, nel 1892 venne fondato il Partito Socialista Italiano in cui si distinsero emancipazioniste milanesi come Mozzoni, Sarfatti, Clerici che si impegnarono personalmente nel partito, spingendo la lotta a favore della donna.
Aurelia:
Io simpatizzai per quelle idee e, se indulgevo in teoria, allo spirito del
socialismo, di cui riconoscevo l’influenza rinnovatrice, mi rendevo anche conto
dei lati pericolosi delle sue estrinsecazioni e me ne era ingrata la troppo
frequente volgarità formale. Intendevo il socialismo nei suoi risvolti
umanitari e morali. Volevo contribuire a costruire un mondo nuovo e
verosimilmente migliore. E fu in quegli anni che incominciai a maturare l’idea
di creare una scuola di agraria per la donna. Volevo, attraverso l’istruzione,
fare in modo che le donne meno abbienti, logorate dalla vita malsana e
insalubre della città, potessero ristabilirsi sia fisicamente, sia moralmente.Aurelia: Ero già abbastanza avanti con gli anni quando ritornai come supplente presso l’Istituto Magistrale C.Tenca. Affrontavo ogni esperienza con entusiasmo e convinzione. La mia determinazione non si è mai spenta. Ricordo le parole del prof. De Angeli, il preside della scuola C. Tenca: << Ho ammirato l’umiltà e l’abnegazione di un’eremita insegnante che per solo amore della gioventù si adatta ad un sacrificio pur di aiutare la scuola già da tanti anni beneficiata e onorata dell’opera sua di educatrice>>. Durante quegli anni ebbi modo di verificare i punti deboli della didattica tradizionale, spesso troppo teorica, lontana dalla realtà e poco capace di coinvolgere gli alunni. Ero fermamente convinta che, la centralità dell’esperienza diretta, fosse un irrinunciabile momento formativo in grado di rendere l’apprendimento concreto, graduale e piacevole. Divulgai le mie proposte di riforma con interventi pubblici e mi dedicai anche alla stesura e pubblicazione di manuali scolastici innovativi. Ero sempre più consapevole che l’insegnamento fosse una missione perché contribuiva a formare le nuove generazioni a cui trasmettere un patrimonio di sapere, ma soprattutto un’eredità di valori spirituali. La passione ha, quindi, caratterizzato tutta la mia vita. La ricerca mi ha reso instancabile e combattiva. Sempre. Ma il mio grande amore è stato quello per la Scuola Pratica Agricola Femminile per la quale lavorai gratuitamente come organizzatrice e direttrice dal 1901 al 1931. Fu la mia impresa più grande. Non aveva precedenti, in Italia. Nasceva ispirandosi a modelli europei. Fu la mia creatura. Lavorai senza tregua e con orgoglio. Feci molti viaggi all’estero per documentarmi. Scomodai uomini di potere e coinvolsi nella mia causa personalità di rilievo dell’ambiente milanese e lombardo ed esponenti del mondo femminista ed intellettuale. Volevo trasmettere un pensiero nuovo negli ambienti rurali, nelle professioni legate alla terra. Volevo conquistare il pubblico femminile soprattutto per agevolare le donne nella possibilità di intraprendere carriere nuove e più remunerative.
In quel periodo nel resto dell’Italia pesava una forte discriminazione che escludeva la donna dal voto e dalle professioni liberali, penalizzandola anche nella retribuzione salariale. Fu in quel clima che nel 1882 nacque il Partito Operaio Italiano. E, dieci anni dopo, nel 1892 venne fondato il Partito Socialista Italiano in cui si distinsero emancipazioniste milanesi come Mozzoni, Sarfatti, Clerici che si impegnarono personalmente nel partito, spingendo la lotta a favore della donna.
La
città di Milano aveva un’importante tradizione femminile, sia dal punto di
vista culturale, con i tanti salotti letterari promossi dalle donne, sia dal
punto di vista politico attraverso la partecipazione attiva di milanesi e
lombarde al Risorgimento.Bianca
Milesi Mojon, la contessa Clara Maffei, la principessa Cristina di Belgioioso,
Laura Solera Mantegazza furono donne impegnate a rinnovare la società. Milano,
sempre sensibile verso il bene comune, la rendevano un ottimo scenario per
occasioni di intervento femminile. Nell’associazione generale delle operaie,
fondata nel 1862 da L. Solera Mantegazzi, si formarono le più note
emancipazioniste: da Ersilia Majno a Costanza Rignano Sullan, ad Alessandrina
Ravizza. Aurelia seppe costruire una rete di relazioni aggregando le persone
più diverse per estrazione sociale, per cultura, per nazionalità che
assicurarono alla scuola la capacità di sopravvivenza, grazie ai loro
finanziamenti e a quelli dei privati. Nel maggio del 1900 Aurelia Josz fu
invitata a relazionare sul progetto della S.P.A.F. nel Circolo di Coltura
femminile M.G.Agnesi fondato nella primavera di quello stesso anno da Adele
Nulli in Mejani Leinati, attiva nel movimento anticipazionista e
promotrice della Lega per la tutela
degli interessi femminili. L’argomento riguardava il ruolo e le modalità di
intervento della donna nell’agricoltura ed era di particolare interesse. Il
testo della sua conferenza fu dato alle stampe. Eccone
un piccolo stralcio: Il quesito è ormai
di quelli che sono nell’aria, nel tempo, nelle attualità: non è particolare o
ristretto al nostro paese, il mondo civile se ne occupa, esso formerà uno dei
soggetti di discussione più importanti del futuro congresso femminista che si
terrà a Parigi nel prossimo giugno….Io mi compiaccio, Signore, di aver potuto
parlare con Voi di un argomento così essenzialmente legato all’avvenire della
donna, e per riflesso al quesito economico e sociale dei tempi nostri, sono
lieta dell’onore che mi è toccato di avervi per ascoltatrici nell’ambiente
geniale di questo circolo così giovane e già così fiorente, ed ormai divenuto
palestra di attività femminili e di nobili gare…presso questa Milano.. che è
sempre larga di favore e di appoggio alle idee intese al pubblico bene.
Aurelia
Josz devolse il ricavato della commercializzazione alla Cucina degli ammalati
poveri nata per volontà di Alessandrina Ravizza con cui coltivò lungamente
rapporti di amicizia e di stima. Paolo
Mantegazza, per lodare la S.P.A.F. in una lettera scrisse: Questa nuova scuola che avete fondato è un gran passo sulla via del
progresso delle nostre donne…voi avete continuato la tradizione della mia santa
mamma che in Milano fondava le prime scuole Professionali femminili e il primo
ricovero per bambini lattanti. Vi bacio la mano benefica come italiano e come
figliuolo di Laura Solera Mantegazza. Aurelia:
Nel 1906 ricevetti la medaglia d’oro
nell’ambito dell’Esposizione Internazionale
di Milano per la mia guida metodologicamente moderna della S.P.A.F., per
il mio modo di intendere l’istruzione come strumento di emancipazione,
commisurato alle esigenze del lavoro. Con E. Majno condividevo comuni
frequentazioni fra cui quella con Ada Negri, la poetessa lodigiana di umili
origini che si diplomò maestra nel 1887 e divenne in seguito mia collega alla
Scuola Normale G. Agnesi di Milano. Ada Negri lodò sulle pagine del Corriere
della Sera le modalità e i metodi di insegnamento della S.P.A.F. e le sue finalità di recupero
della cultura della terra. La nostra amicizia si prolungò per molto tempo. In
quel periodo, fervido di suggestioni culturali e di relazioni personali, aveva preso forma la realizzazione e la
crescita della mia prima Scuola pratica agricola femminile. Fui definita dal
mio amico Panzini <<una
femminista di nuovo genere.>>
Aurelia: ero
fermamente convinta che la donna era un elemento attivo della società e sarebbe
stata di sicuro un indice di progresso. Le allieve della S.P.A.F. avrebbero
potuto apprendere i metodi scientifici legati anche all’apprendimento pratico e
il tirocinio. Le diplomate del ceto medio agrario, una volta tornate a casa
nelle piccole proprietà terriere di famiglia, avrebbero potuto svolgere
un’importante opera di propaganda a favore di una tecnologia più progredita con
metodi moderni, incrementando così la redditività. Avevo a cuore di frenare
l’esodo dalle campagne che causava l’abbandono delle terre. Avevo cercato di
scoraggiare le donne a scegliere mestieri ormai in crisi e scarsamente
retribuiti. Fra questi la professione di maestra
che attirava le fanciulle: “a migliaia a migliaia le ragazze provenienti dal
contado studiavano per finire maestre in un villaggio con 30 lire di stipendio
mensile, dopo molti concorsi, dopo accanite lotte, o scrivane in un banco di
città dove lavoravano, mal pagate, da mane a sera, o nelle case dei ricchi come
governanti, sottoposte ai capricci della padrona, dei bambini e del servidorame
per sopramercato. Esse sono le vere spostate e si trovano in condizioni
peggiori di qualsiasi altra donna lavoratrice per lo squilibrio costante dei
loro sentimenti, delle loro aspirazioni, con la realtà gretta e tirannica della
vita. Il mio dovere lo compivo intero. Fu tutta la mia vita. Fu la mia gioia
d’educare, insegnando, fu amore delle cose belle sentite e vissute, fu il
desiderio di giovare agli altri. La mia idea di fondare una scuola femminile
che riportasse verso la terra le scolarette venute dalla campagna per
ritornarvi con un diploma di maestra da conquistarsi a prezzo di qualsiasi
sacrificio, per elevarsi.”
Rendere accessibili alle donne gli
studi agrari avrebbe aperto loro nuovi sbocchi professionali nelle industrie
agrarie considerate minori come la bachicoltura, l’apicoltura, la floricoltura,
le attività casearie. L’apprendimento di un mestiere sarebbe stata una reale
opportunità di riscatto sociale. La
S.P.A.F. rappresentò un unicum in
Italia. La struttura di riferimento era quella delle école ménageres del Belgio
e in particolare del collegio di Heverlè che furono prese a modello dalla Josz
perché si caratterizzavano per essere rivolte ad un’utenza femminile e perchè
garantivano una formazione professionale moderna, grazie alle strumentazioni
tecnologiche e scientifiche e all’ampio sviluppo dato alla sperimentazione. Le
diplomate della S.P.A.F. si fecero, quindi, promotrici di un’agricoltura più
aggiornata. Furono preparate anche le massaie che, secondo gli obiettivi della
nuova scuola, avrebbero formato “ una
donna assetata, svelta e gioviale che ti prende un buon libro moderno, studia
il risultato della scienza e lo applica, che riceve giornali e cataloghi
d’agricoltura, pollicoltura, di apicoltura, e di tutto quanto concerne l’opera
sua, che intende l’importanza dell’igiene e della nettezza, che tiene i conti
dell’azienda, che dirige le subalterne nei vari lavori della fattoria.”
Aurelia:
Il seme era gettato ma come al solito ero
sola, troppo sola. Molte erano le opinioni disfattiste ma io ero sempre più
convinta che le cose sarebbero cambiate.
Anche Panzini non ci credeva . Sulla Vita Internazionale scrisse: “E’
un’idea che pare una bizzarria e che dopo avervi pensato si trasforma in
un’idealità e dopo averci ancora pensato, l’idea diventa una cosa pratica,
buona, socialmente santa.” C’era chi ammoniva che le donne di
campagna avrebbero risposto con un sorriso di compassione perché fra madri e
figlie, altro non sognavano che un marito e una città. Ma io ero fermamente
convinta che l’opinione pubblica si sarebbe a poco, a poco svegliata.
L’occasione si presentò molto presto. Seppi che al Consiglio dell’orfanatrofio
della Stella si era ventilato il proposito di attivare un ramo di istruzione
agraria. Mi concessero un’aula e un appezzamento rustico per le esercitazioni
pratiche. L’accordo era quello di formare una sezione per esterne e maestre
elementari. E così iniziò il primo esperimento
inaugurato l’8 dicembre del 1902 nell’Orfanatrofio. Più tardi ebbi l’appoggio
della signora Camperio, presidente del Comitato, della prof. Cleofe Pellegrini,
direttrice della scuola Gaetana Agnesi. Arrivarono i primi sussidi della Cassa
di risparmio e della Camera di commercio. In quel primo anno di esperimento
tutto andò per il meglio. In seguito la Direzione provinciale mi mandò un
sussidio di 150 lire. Ero sempre più convinta che avrei dovuto trovare locali
più adatti, e terra. Li trovai a Niguarda, nella settecentesca Villa
Clerici-Melzi. Il 13 novembre 1904 ci fu
la conferenza d’apertura. Nel 1905 il Ministero dell’Agricoltura mi
incaricò di andare all’estero per raccogliere esperienze relative al progetto.
Visitai le scuole congeneri della Svizzera, del Belgio, dell’Inghilterra e
tornai in Italia entusiasta di quello che avevo visto.Maturai l’idea di aprire il convitto
e di lì a poco, ci riuscii. Fu
inaugurato dal ministro Pantano. La scuola assunse, così, la formula di
una vera azienda agricola in cui le allieve, obbligate a risiedervi pagando una
retta modesta, svolgevano tutte le mansioni, anche domestiche, e vivevano a
stretto contatto con la natura. Ero così determinata e convinta delle mie idee
che nessuno avrebbe potuto incutermi timore.
Ottenni un sussidio dell’Umanitaria con l’appoggio della baronessa Alice
Franchetti, la fiammella francescana, così era chiamata.Riprendemmo con un corso di Economia
domestica. Il Ministero ci donò una mucca. Incominciammo a realizzare il nostro
caseificio. Le difficoltà erano tante. La sera ero stanca sia moralmente,
sia fisicamente. Il babbo mi
incoraggiava ad andare avanti.“Qualche tempo dopo cambiammo casa, ma
restammo sempre a Niguarda. Il locale della Casa Clerici era diventato
insufficiente. Ci trasferimmo al di là del Seveso da dove non ci muoveremmo
più. La casa era un’antica villa padronale, in stato d’abbandono, frazionata e
divisa in umili alloggi. Bisognò provvedere a tutte le disposizioni del caso e
ne risultò una dimora modesta e semplice, ma non priva di linea. Era quanto mi
piaceva e mi bastava, essendo stata sempre aliena da eleganze pretenziose che
generassero aspirazioni eccedenti il tono della vita di chi lavora in campagna,
convinta, dagli antichi saggi, che il desiderio è sorgente di dolore. Non so
come si facesse, quell’anno a sbarcare il lunario, utilizzammo ogni cosa allo
scrupolo e con industria. Il Ministero ci inviò una raccolta di libri. La
signora Camperio oggetti e suppellettili varie, la baronessa Franchetti ci donò
una cucina senza fuoco, i professori Alpe e Cioia tavole murali, gli Ingegnoli
alberi da trapianto, gli insegnanti il concorso disinteressato.”
Nel
1908 il terremoto di Messina fu disastroso. L’anno dopo Aurelia Josz riuscì ad
ospitare delle orfanelle scampate al sisma. Intanto a Niguarda tutto procedeva
al meglio con le lezioni di coltura generale. Le lezioni teoriche di
specialisti si svolgevano all’aperto, all’ombra del solenne deodara. Le lezioni
pratiche nell’orto, nella stalla, nella bacheria, nel pollaio e in cucina. I
problemi economici erano tanti. Nel 1911, su invito del Ministero, la Scuola
partecipò all’esposizione internazionale di Torino e ottenne un diploma
d’onore. Nel 1914 ricevette una medaglia
d’oro da parte del Ministero dell’istruzione. La Scuola promosse la Lega
delle massaie nuove con lo scopo di far propaganda e divulgare l’istruzione
agraria in tutte le scuole italiane. Ma intanto era scoppiata la guerra. In
quel periodo la scuola accolse le orfane di guerra, improvvisò un laboratorio
per confezionare pezze da piedi ingrassate che furono inviate in grande
quantità al fronte.
Aurelia:
avevamo ricevuto dal Ministero
dell’Agricoltura la medaglia al Merito agricolo. Un alto riconoscimento mai
concesso alle donne. Ero molto preoccupata della situazione degli orfani di
guerra e pensai che sarebbe stato importante che in ogni provincia sarebbe
potuta sorgere una sorella alla scuola di Niguarda. Mi recai a Roma, al
Ministero accompagnata dalla lettera di Luigi Luzzati che così scriveva: “Caro
ed egregio Ministro, vuol usarmi la cortesia di ricevere ed ascoltare la
signorina Josz? E’ una santa che pensa all’educazione agraria come ad un ideale
di saviezza, di bontà, di produzione sana.”Nel 1920 tornai a Roma con decreto
reale del 30 dicembre: la S.P.A.F. divenne Istituto consorziale autonomo e fu
riconosciuta come Ente morale sotto la vigilanza del Ministero
dell’Agricoltura. Nel giugno 1922 il prof. Giovanni Vidari, incaricato dal
Ministero di fare un’ispezione, la prima al novello corso Agrario, sulla
rivista Levana così scriveva: “ L’aura di pace, di serenità di purezza che
si respira alla scuola di Niguarda, il culto quasi tolstoniano del lavoro come
fonte di energia morale, il rispetto pressoché francescano della natura e degli
animali, l’applicazione quasi immediata e consapevole del pensiero scientifico
alla pratica, si compongono nell’animo del visitatore, in una espressione sola
di simpatia e di plauso. In modo particolare mi sembra che la scuola di
Niguarda sia adatta a preparare la vera e buona maestra della scuola rurale.”
Nel
1923 il governo riconobbe il titolo rilasciato dal corso magistrale della
S.P.A.F. ai fini della partecipazione a concorsi, provvedimento che doveva
procurare un più alto numero di iscrizioni
e che giungeva dopo il positivo giudizio dell’ispettore ministeriale: “
Ho assistito alle operazioni di sbozzolatura e di selezione di bozzoli, di
innesto a tutte le varie operazioni della lavorazione del latte…ho avuto dalle
allieve le spiegazioni scientifiche degli ordigni adoperati, dei processi
chimici e meccanici provocati, così che ne ebbi l’impressione di un
addestramento tecnico consapevole dei suoi fondamenti razionali, però capace di
svolgersi, e non destinato a chiudersi in un arido meccanicismo. La Scuola
pratica agricola femminile di Niguarda è, dunque, in complesso un esperimento
ben riuscito…L’impianto è buono, la struttura è solida, i principi direttivi
sono sanissimi.”
Aurelia:
Gli anni a venire furono intensi , una
vera e appassionata lotta per salvare il patrimonio morale. Ho pensato di
cedere tante volte, ma prevaleva sempre il mio animo guerriero. Decisi di
andare dal duce. Ottenni udienza e mi recai a Roma accompagnata da una lettera
di Ada Negri. Il duce mi disse: “La sua visita mi ha interessato moltissimo.”Dopo qualche tempo la scuola si rianimò con una scuola di tirocinio che fu realizzata nel padiglione come modello rurale mista. Il numero delle allieve era cresciuto. Fui poi chiamata a Roma per avviare la scuola di Agraria fascista di S. Alessio che riuscimmo ad inaugurare dopo sei mesi. Un comunicato affermava: “I partecipanti al 4° congresso di Economia domestica hanno visitato con grande interesse la Scuola fascista femminile di Agricoltura a S. Alessio iniziata dalla professoressa Aurelia Josz sul modello della Scuola pratica femminile di Niguarda…”
Ma il regime ebbe un duplice
atteggiamento nei riguardi di Aurelia e delle sue iniziative che dapprima apprezzò
e sostenne anche con pubblici riconoscimenti e aiuti economici, ma di cui,
presto, volle avocare a sé ogni merito, condannando all’oblio finanche il nome
della Josz.La mia storia continua nel dolore. Mi
è troppo duro il ricordo. Ma la storia è storia. Mi avevano proposto di restare
a Roma alla guida della nuova scuola ma io avevo rifiutato. Dichiarai che non
avrei lasciato definitivamente Milano per accettare la direzione della scuola
romana offertami con cortese insistenza. Al gerarca si era fatto credere in una
mia diserzione. E così gli scrissi:
No, Eccellenza, io sono un buon milite e il mio posto di guardia non l’ho
abbandonato mai.La storia che seguì fu ricca di
fraintendimenti, di strumentalizzazioni da parte del regime che causò la
chiusura della S.P.A.F. nel 1931. Negli ultimi anni cercai di resistere, di
lottare, di sperare. Ma poi l’amara e dolorosa sorpresa alla fine del 1929. Il
Comune di Milano, per economia, sospese il versamento della quota consorziale.
Il gruppo d’azione chiuse la scuola e mise in vendita il padiglione. Nel mese
di dicembre di quell’anno avemmo ben due ispezioni ministeriali, andate a buon
fine. L’anno seguente non avevamo che le tre borse di studio fondate dal
Consiglio dell’Economia nazionale in onore della principessa Maria di Piemonte.
A gennaio la scuola riaprì con 6 allieve in tutto. E fu la fine. La scuola chiuse nel 1931. A nulla
valsero le mie suppliche, la mia tenacia. Il ministro dell’educazione nazionale
ebbe per me parole gravi e denigratorie: “La
professoressa Josz, di carattere particolarmente difficile e del tutto
incompetente in materia agricola…evidentemente non ha più il pieno controllo di
sé.”
Calava il sipario su una vita di dedizione, di grandi entusiasmi, di tante innumerevoli fatiche. L’avventura di Aurelia termina qui.
Aurelia: “Tutto è concluso: le scolare sono partite.
Resto io sola, nel silenzio, presso il deodara. Io vengo alla tua ombra tempio
vivente che volgi in alto le verdi braccia come un atto di mistica
supplicazione: qui la preghiera benché inarticolata, sgorga e si eleva: qui
scriverò l’ultima pagina di questa storia di amore e di dolore. Sei sempre
bello ma i tuoi rami non scendono più come un tempo fino a terra. Nella tua
chioma aghifoglie fine e ariosa come una piuma, sono alcune radure, ché ti
colpì a morte un’ondata di gaz mefitici, sfuggiti una notte dalla fabbrica
troppo vicina e fu grazia poterti salvare a forza di cure. Eri nato in villa
cento anni fa e ti radicasti nel profondo in questo luogo di pace ove io ti
trovai, vigoroso e sovrano or sono quattro lustri, ma le case che erano allora
lontane hanno come camminato e ti stringono dappresso, e le fabbriche rumorose
coi loro camini ed antenna, ti guardano alla pari e ti alitano contro il loro
fiato che intorbida l’aria e ti mozza il respiro. Io ti capisco: tu soffri in
silenzio, ma soffri. Deodara mia ci vuol pazienza: i tempi son cambiati, tutto
si evolve e chi non sa adattarsi deve morire. Del resto, perché non adattarsi a
morire? Questa è saggezza. Tu hai vissuto, si, solo ché ti fu dato portar
frutto, ma godesti della purezza delle albe al cospetto della cerchia delle
Alpi scintillanti lontane e ti indorasti degli ultimi raggi dei tramonti
trionfali: tu accogliesti tanti nidi pigolanti, tu desti ombra alle mie
figliuole e serenità mentre studiavano, lietezza mentre giocando si
arrampicavano sui tuoi rami come scoiattoli. Infine chiunque venisse, ti ha ammirato come una magnifica creatura di Dio, ed
io ti ho voluto sempre bene: puoi morire contento. Così fosse di me, che forse
in qualche cosa ti assomiglio: io fui sola e invano attesi l’attimo di grazia
che sublima e infutura la vita; pure adempiendo da mane a sera i doveri
incombenti, aprii il cuore a miti affetti e profondi, anch’io come tu il
polline al vento, sparsi il germe di un’idea e mirai a splendori lontani nelle
nebbie dorate. La sorte ci ha avvicinati: ora dovremo separarci.Vedi io ti parlo come a un amico di
tanto lavoro non resta che la memoria e qualche briciola di bene qua e là, la
nostra cara scuola non può durare: io sono proprio stanca della lotta vana:
mancano le linfe, spirano venti contrari, ed è ancor lontano il giorno in cui
ciò che essa fu, ciò che volle essere sarà inteso compiutamente e diverrà
spirito di azione rinnovatrice. Anch’io oggi a ben riguardare comprendo che
così com’era concepita in semplicità e povertà, da piacere a S. Francesco,
bella solo di lindura e di opere, non può più esser gradita, ché la gente oggi
vuole la meraviglia degli occhi in ogni oggetto.Noi non vivemmo così: di poco fummo
contenti e, per l’ideale, l’ora che declina, ci trova in poveri panni. Indi non
resta ormai che comprimere l’affanno, forti di una coscienza tranquilla, ed
accettare l’inevitabile, senza troppa amarezza, perdonando e sperando ancora
senza rimpiangere la propria follia se tale fu, perché di qualche cosa, oltre
il pane, per qualche cosa che sembri degna, bisogna pur vivere.”Calava il sipario su una vita di dedizione, di grandi entusiasmi, di tante innumerevoli fatiche. L’avventura di Aurelia termina qui.
Finisce la storia di un’idea e di un’opera. Il 15 aprile del 1944 Aurelia fu arrestata ad Alassio e imprigionata a Marassi, a Genova. Poco dopo fu deportata nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove il 1° luglio trovò la morte nella selezione iniziale.Nel 1933 il regime decise di riavviare la scuola: la nuova direttrice fu Maria Nicolini. Nel 1937 la scuola venne trasferita a Cimiano, nella periferia di Milano; nel 1939 assunse la denominazione di Scuola Agraria Femminile Augusta Mussolini; dal 1945 in poi, venne distrutto l’intero patrimonio dell’ente. Ci vollero ben dodici anni per ottenere la ripresa dell’attività, grazie alla determinazione di Maria Nicolini. La nuova sede aprì nel parco di Monza, presso la Cascina Frutteto, che venne appositamente ristrutturata nel 1956 e inaugurata il 14 gennaio del 1957.Valeria Vita Josz : “Mia sorella Aurelia Josz di me scrisse: “Io l’ebbi da allora quasi per figlia ma non per questo io ne tesso il panegirico: altri più degni, che la conobbero e la compresero, lo fecero.” Sono centinaia le antiche allieve ormai grigie o canute che le hanno votato un ricordo imperituro. Una mi scrisse alla sua morte: “E’ la creatura più alta che io abbia mia conosciuto.” Alta sì, ma umana serena e forte. Capace di sdegni danteschi e di giudizi severi, aperta a ogni forma d’arte, musicista sensibile, e un po’ romantica, come si intuisce dalle sue opere di scrittrice. Di queste non parlerò né di quelle didattiche: parlano i libri e gli opuscoli che ancora rimangono, se bene in gran parte trovabili solo nelle biblioteche, e i quarant’anni di insegnamento e il ruolo d’onore. L’aver rifiutato la tessera fascista le tolse la medaglia d’oro.Parlerò solo della figlia spirituale, alla quale dedicò per venticinque anni, senza alcun compenso materiale, le sue migliori energie: la Scuola Agricola Femminile Era una di quelle anime che non possono perdere la fiducia negli uomini e nel trionfo del bene. Chiusa la sua più feconda parte della sua vita Aurelia si dedicò alle cure di mio fratello Italo colpito da una grave malattia di cuore. E non conobbe stanchezza o riposo fin ch’egli visse. Incombeva su di noi più grave delle incursioni aeree l’incubo della persecuzione razziale. Il primo dicembre del 1942 si spense nostro fratello Italo e Aurelia mi raggiunse ad Alassio. Tre volte volli sistemarla in sicuro asilo, tre volte ella tornò a me, anteponendo gli affetti familiari alla sua sicurezza personale e l’ora della fuga la trovò sofferente di una rottura al braccio, occorsole cadendo. Impossibile condurla attraverso le reti del confine svizzero.
Ma ella non temeva: “Non possono farmi alcun male” mi disse al nostro ultimo colloquio, perché come disse Severino Boezio prima del martirio, il male ricade su chi lo fa. Era una profezia ma ella fu travolta. Imprigionata a Genova il 15 aprile 1944, poi trasportata a Fossoli. Fu costretta nei tremendi vagoni piombati, all’ultimo viaggio. Ad Auchwitz, in Polonia: gaz, fuoco e ceneri. Ma tu non sei morta: il tuo spirito vive ancora nel ricordo di una legione di donne alle quali infondesti la forza di vivere ben operando vive nella scuola che tu creasti.Un‘altra donna ha raccolto la fiaccola e fra lotte, difficoltà e dissensi, l’ha tenuta alta. Che importa il resto, nel tempo, quando i miei occhi avranno cessato di piangere il tuo martirio?La scuola Agraria rimase chiusa e deserta per un anno intero, poi giunse a dirigerla la dott.ssa Maria Nicolini che volle conoscerti e serba di te grata memoria. La scuola, messa di nuovo in efficienza, fu riaperta il 7 gennaio 1933. Nel 1937, abbandonata la vecchia sede e il tuo amico deodara, fu trasferita a Cimiano di Crescenzago, per ragioni di ingrandimento.Qui, nel 1943, per contingenze belliche, i locali furono requisiti e occupati dai profughi. Solo quest’anno, vinti i molteplici ostacoli e le avverse correnti per l’opera indefessa della dott.ssa Nicolini, dell’ingegner Conte Dal Verme e di altri volenterosi, la scuola s’è riaperta bella, semplice, dignitosa e completa come tu, colla sorte comune ai pionieri, non riuscisti ad avere. Sono andata ultimamente a visitare la scuola con l’animo un po’ trepidante pel timore di scorgervi cosa che avrebbe potuto dispiacerti.Ma nulla ho visto che non fosse consone all’ideale che perseguisti. Mi pareva che tu fossi al mio fianco mentre la dott.ssa Nicolini mi guidava attraverso le ampie aule e i dormitori arredati con elegante semplicità, illustrandomi il molto fatto e il parecchio da fare e percepii chiaramente che se tu fossi stata al mio posto, le avresti detto, nel cordiale commiato: “Bene, sorella coraggio e avanti!”Sfoglio una margherita al vento perché qualche petalo idealmente raggiunga il campo di sterminio di Auchwitz dove furono gettate le sue ceneri, dopo il martirio.”
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