MARCIA THEOPHILO " Noi alberi viviamo di piogge, di rugiade eterne e delle brume"


 
Noi alberi viviamo di piogge
di rugiade eterne e delle brume
dei fiumi e degli oceani
di mattutini vapori
e delicate nebbie
Durante il giorno il calore
dei raggi del sole
dilata i nostri corpi sublunari
che assorbono cosi, nel profondo,
la soavissima rugiada notturna.

Márcia Theóphilo è una poetessa e antropologa brasiliana. La foresta amazzonica è il tema attorno a cui ruotano la sua vita e le sue genti, i suoi fiumi, i suoi miti, le sue specie animali e vegetali e gli sforzi per preservarne la sua ricchezza naturale e culturale. “Io sono l’Amazzonia, io ho l’Amazzonia dentro. Io sono un essere della foresta, e dentro di me porto le ferite dell’Amazzonia distrutta” Mi domando: può un poeta identificarsi con un tema, con un problema? Credo di sì, un animale crea un rituale, un fiume prende nome da una tribù, così come gli alberi non sopravvivono se scompaiono le api, eccetera. Un fiume può dare nome a una tribù così come il nome di un rio può derivare da un pesce, da un frutto, un nome di un albero può definire il nome di una persona, di un mito, così come il canto di un uccello o il verso di un animale o il suo nome stesso possono dare nome al fiume. La poetessa diventa la “voce” del mondo in sofferenza per la sofferenza della sua Amazzonia. È come se un animale fosse ferito e la poetessa cantasse il lamento funebre in attesa della sua morte, sperando però che l’animale possa guarire e salvarsi. La Foresta respira, parla, si lamenta, aggredisce per difendersi, e tuttavia non ha la forza per potersi salvare da solo. La Foresta è il complesso degli esseri che la abitano, delle piante che vi crescono e respirano. La Foresta è una lingua, e le parole che la percorrono in lungo e in largo sono gli esseri che la abitano. È un organismo vivente che sta subendo tremende mutilazioni.
 
Lo sciamano/uccello della foresta che si trova nel mio libro Amazzonia è una figura fantastica che ho creato e interpreto come simbolo sciamanico, che si identifica anche con un uccello della foresta e ascolta le lingue delle altre specie e si sente praticamente espulso dal suo territorio dall’invasione dei bulldozers e dalla deforestazione, per cui deve trovare un nuovo luogo per fare il nido, comunque per sopravvivere, e non può farlo che tra gli edifici di cemento. E’ un lamento, è una preghiera e anche un’accusa a chi viola la foresta. E’ la descrizione di un particolare momento “magico” della vita della foresta, con le sue voci che si risvegliano verso la mattina.

























Urutàu
Una brezza sfiora il volto di Urutàu
gli uccelli cantano fra gli alberi
di giorno e di notte
Urutàu li ascolta, li vede
Coglie i frutti, deve tornare al villaggio.
Deve tornare dai suoi.
Ma che lo impedisce?
Otto o dieci uccellini di colore azzurro
si cullano sui rami di un albero.
Un coro di penne increspate
di becchi socchiusi.
Cresce il cinguettio.
La danza dei Tangaràs
Tutti intorno
Le palme, gli embirugù
i ficus. il tururì,
il suo legno sottile
della maschera dello sciamano Urutàu
lo fa volare lontano, fino al cielo
I pensieri fluiscono nel vento
nell’alba silenziosa
Volando a capo eretto
nella foresta immensa.
E passa sopra gli alberi
sopra gli igarapés.
gli igarapòs
le pianure tranquille
ode un fragore: la pororoca
dove il gran fiume s’incontra col mare.
Chiama Yara, uyara, ayara, boiagù
la madre d’acqua dà forza
al suo volo
Cresce il verde, le foglie tormentate
Dipinto il capo di bianco con tabatinga
e le gambe di rosso con urucù
Abbandona l’anima umana:
Urutàu è un uccello
le sue ali palpitano, fremono
Canta lungo la notte fino all’alba
quando rallegra l’inizio
del giorno.
Poi in una valle
fra i monti ascolta un torrente
Non scende più, rimane in alto
Vola, vola Urutàu
Non temere di spezzarti
le ali contro le vette
Respira gli odori dell’aria.
Porta ancora: collane di conchiglie
molluschi e sonagli
della sua identità umana.
Dal villaggio lo chiamano:
«i suoi nemici hanno piedi
e non lo raggiungono
hanno mani e non lo afferrano
frecce e lance si spezzeranno
prima di arrivare al suo corpo».
Quando Urutàu passa, la terra
sembra aprirsi: il suo pensiero
è un seme che mette radici
e tesse fiori, canti delicati

la natura s’avvolge di silenzio
s’azzittiscono gli uccelli
un vento caldo soffia sulle rive
le nubi s’accostano
s’inclinano i rami
un flauto immenso chiama
da sotto terra.
Urutàu chiama i frutti amici
goiaba, cajà, manga, mangaba
muricì, pitanga, jenipapo
pitomba, jaboticaba, jatobà.
Dalla cima di un grane albero
Urutàu vede per l’ultima volta la foresta.
Nuovi odori impregnano l’aria
il mucura ruba il fuoco
La lotta con il vento accentua l’ansia
Urutàu dalla cima dell’albero grida al villaggio:
«Venite, venite a vedere»
nessuno ascolta, nessuno risponde al richiamo
L’uccello attraversa regioni di verde
stretti deserti, di nuovo il verde
di nuovo il deserto
sono gialle le acque
incendi, nuvole e fumo insieme
i bulldozers invadono
avanzano, luci lo abbagliano
pensieri feroci lo trapassano.
Dalla città si levano immondizie
toccano le sue piume
foglie, lettere vecchie
fiori di alluminio e di carta.
Scesa la notte Urutàu
sceglie il nuovo territorio
non più eterno, vivrà giorno per giorno.
Urutàu uccello disperso,
il tuo bosco è tra i grattacieli
tra i muri di cemento
è il tuo nido.


Márcia Theóphilo – 1986
 
































Marcia non ha armi ma è una guerriera. Una combattente amerindia che si batte da più di quarant’anni per la difesa della foresta amazzonica, che chiama «il respiro del mondo». Testimonial Unesco2010 per la biodiversità, antropologa e poeta.  Ha scritto molti libri per denunciare la deforestazione selvaggia della sua terra, un «olocausto degli alberi» che riguarda tutti. «Io in realtà sono un’antiantropologa, perché attraverso la poesia cerco di entrare dentro le cose, di raccontare l’anima della foresta». La sua battaglia continua da anni. Marcia gira il mondo, incontra bambini, studenti universitari, presenta libri, partecipa a recital di poesie. Perché «noi siamo alberi e se muoiono loro moriamo anche noi» va ripetendo. l suo libro Amazzonia è una raccolta di poesie corredata dalle bellissime illustrazioni della peruviana Iole Eulalia Rosa e da un glossario con tutti i termini scientifici della foresta più grande del mondo. Da alcuni anni, diversi gruppi di intellettuali ed ecologisti sostengono la sua candidatura al premio Nobel per la letteratura. Di lei dice: “sono una meticcia, ho ascendenza india, mia nonna era un’india. Penso che la terra sceglie le voci che possano difendere la sua vita. L’Amazzonia ha scelto me. È un’illusione che siamo noi a scegliere; in realtà noi veniamo scelti. Mio padre era poeta che improvvisava versi. Io li scrivo, ma prima li penso e li sento. Nascono dentro di me come voci della foresta. Non faccio altro che registrare le parole che sgorgano da una fonte interiore che non so come definire se non “me stessa”. Vado alla ricerca dei miei archetipi. La vera cultura emerge dall’interiorità senza che l’autore abbia piena coscienza di quel che va dicendo. Una ricerca – per quanto mi riguarda – arcana e arcaica, che è più contemporanea della modernità. Noi siamo il momento attuale della storia, che significa inquinamento e distruzione. Nel 2006 ho pubblicato un manifesto ecologico dal titolo “Fratello albero, sorella Dorothy Stang”. Dobbiamo avere il coraggio di criticare la tecnologia, se essa viene usata male. L’Amazzonia è assassinata dal silenzio del mondo, al quale appartiene (e non solo al Brasile). Insomma, si tratta di una violenza perpetrata dalle multinazionali, attraverso le tecnologie, negli ultimi 50 anni. Prima non c’erano le multinazionali e la Foresta aveva conservato il suo segreto vitale. Dietro questa denuncia, c’è il lavoro per la mia poesia, che nasce come ha intuito Mario Luzi da un “amore assoluto e sensuale al proprio tema”. Se non ci fosse questo amore, e anche l’incanto per la bellezza, se non ci fosse la mia adesione sensuale a tale bellezza, non ci sarebbe poesia ma solo denuncia politica. Compongo ogni mio verso come una frase musicale.
 

Senza musica non ci sarebbe né emozione né valore nelle parole. L’epica della foresta non è solo tornare ai ritmi antichi, ma è una dilatazione continua di nuovi ritmi su quelli antichi. Infatti la foresta è immensa. Nel mio lavoro ho cercato di fare una fusione fra memoria emotiva e culturale, tra poesia e documentazione, tra mondo arcaico e contemporaneo. Penso che senza la poesia non si possa raggiungere l’anima della foresta. Non a caso sono poeta antropologa. La foresta non è un fossile, è un organismo vivente, come il mondo del resto. Il mondo, cioè la natura, sa trovare la propria autodifesa. Nel caso dell’Amazzonia questo non accade: perché le modificazioni dovute all’invasione dei bulldozers sono così rapide e violente che il “polmone” non riesce a recuperare. Solo noi umani possiamo salvarla. Per ciò ho voluto studiare l’Amazzonia prima di cantarla, di farla vivere e rivivere nelle parole. Non ho fatto altro che ascoltare le parole della foresta e tradurle per la gente. La mia nonna paterna veniva dalla foresta. E’ stata la prima persona che mi ha raccontato i miti della foresta e mi ha fatto sentire questa forte sintonia con la natura. Attraverso le poesie ho voluto scrivere tutte quelle storie. Ho creato una vera mitologia dell’Amazzonia, dei fiumi, degli alberi, degli animali. Per gli Indios, tutti gli esseri della natura sono sacri e il mio popolo ha verso di loro un rispetto reverenziale. Gli alberi sono il nostro respiro, noi siamo gli alberi. L’Amazzonia è prima di tutto una cultura di rispetto e di difesa del pianeta. E’ anche una metafora del rapporto strettissimo che c’è tra l’uomo e la natura: noi siamo parte di questo ecosistema. Ci sono stati momenti storici tragici in cui tutti dovevamo dire: noi siamo ebrei, o noi siamo palestinesi. In questo momento tutti dobbiamo dire: noi siamo alberi. L’ambiente è, secondo me, ciò che oggi c’è di più rivoluzionario. E’ dall’ambiente che deve partire l’inizio di un nuovo pensiero. Per uscire dalla mia terra e arrivare al mondo ho accettato la mia cultura e ho studiato. Negli anni Settanta, quando il governo mi ha esiliato e mi sono trasferita in Italia, ho pubblicato libri molto duri. Poi ho capito che la vera denuncia deve arrivare anche al cuore delle persone e non solo al cervello: così ho cominciato a partecipare a spettacoli e recital di poesie, che emozionano molto la gente. La mia battaglia me la porto dentro, la sento. Sono una combattente, non posso avere paura. Nella mia vita, ho dedicato agli alberi più di 400 canti. Il Kupahúba è un albero femmina, ed è considerato sacro. L’olio di questo albero è un antibiotico naturale, cura le ferite e anche il cancro. Per questo l’ho scelto, pensando alle ferite che l’uomo ha causato alla
foresta.
 

Kupauba
La prefazione di Mario Luzi al libro “Kupauba – Albero dello Spirito Santo”
È impossibile attribuire a un essere distinto la voce che parla, loda, alloquisce, descrive, esalta, colorisce nella foresta nella quale tutta la vita vegetale, animale, elementare si accende della sua compresenza e sacralità. Ogni presenza è testimone del suo permanere e del suo tramutare e trasformarsi nelle ore e nelle vicende della luce -e da ogni dove si leva la parola e il suo commento (alberi, fiori, animali, voci di uccelli, frutti, luoghi, rumori, ondeggiamenti d’acqua, fruscii di vento). La vitalità ininterrotta e simultanea di tutta la foresta parla a se stessa da ogni sua creatura – il linguaggio è al di là dell’umano e questo è testato e significato dalla sensibilità tesa, dalla sapienza duttile di Márcia Theóphilo che ha concertato questo poema prevalentemente arboreo. E la stessa durata del corposo poema è in questo caso un tributo alla illimitatezza e alla perennità dello scenario e del tema della foresta amazzonica. Eppure questa celebrazione del mondo integro e primario nella fantasia dei suoi stessi attanti è un mitico canto di memoria viva al cospetto della sua perdita e della sua progressiva rovina. La poetessa che ha ordito sull’emozione immanente della forza e della esuberanza la sua tela costante e variabile allo stesso tempo è anche una spettatrice impietosa del deperire di quell’universo ad opera della speculazione spregiudicata e delle conseguenze nefaste della “civiltà” moderna che ha coinvolto anche quelle regioni.

 

























Márcia Theóphilo ha agito su due fronti con pari generosità: quello della antropologia che ha pratica in studi delle parole indias e in analisi del fenomeno, catastrofico per le popolazioni indigene, e quello poetico del grande canto su una realtà umana e un ordine naturale distrutti e, ahimè, prossimi a essere cancellati. Questo pathos lo aveva già fatto sentire in due cospicui volumi, Io canto l’Amazzonia e I bambini giaguaro. Una vasta polifonia possiamo chiamare questo Kupauba Albero dello Spirito Santo in cui la gamma delle tonalità liriche già apprezzate, della Theóphilo si spiegano e si rispondono. La traduzione in italiano della stessa Theóphilo fa pensare piuttosto a un testo dal doppio versante. E non è un piccolo pregio, dal momento che l’autrice si inserisce bene nel sistema ritmico e timbrico dell’italiano non sacrificando minimamente, a mio parere, il ritmo e il suono dell’originale portoghese del Brasile
 
KupahúbaTamburi onde, suoni senza radici,
ebbri giocano gli indios
i legni più odorosi, più pregiati:
cedri, jacarandà, pau-brasil,
balsami ocra, rossastri
grandioso vigore degli antichi tronchi
èbano, claraybas, magarandùba
il più sacro di tutti, l’albero-femmina
delle foreste del Brasile,
rimedio alle ferite.
Possiede, quest’albero, il colore rosso vivo
nel legno sostanza molto dura
foglie di forma ovale; il frutto
è un pane al colmo della luna
che offre un balsamo,
il suo olio scorre nello stesso albero.
Kupa’ùva, Kupahùba, Copaiba
si riaccende in profumi tra i suoi rami.
Albero dello Spirito Santo.
Sangue di drago, olio di Kupahúba
cuore che batte nei tamburi Kupahúba
il verso nasce contro il vento
la notte si risveglia nella bruma
qua e là compatti sfavillii,
emerge un coro alato tra foglie di rugiada,
Copaiba silvestre, Kupauba, Kupahúba
grandi viali alberati, profumati
solo l’albero femmina Kupahúba, densa
innalza al cielo i suoi lunghi rami
contempla altri dèi; allevia le ferite.
Kupahúba, divinità femminile
sgorga lascivo il suo pregiato olio
ascoltate il lamento, dal suo nucleo
prezioso scorre il liquore,
luminosa stella.
Gli animali feriti sfregano il loro corpo
su Kupahúba che n’allevia
il dolore: balsamo color sangue.
Sangue di drago,
tra i preziosi legni della foresta:
pau-brasil, Ibirapitanga, pau-rei, jacarandà,
antichi tronchi robusti, vermigli
balsami jacuybas, capucaias
salsafrazes, tamarindi, cannella
incenso, olio odoroso di Kupahúba
solo nelle immense foreste si trova.
Foglie vive, andirivieni d’insetti
farfalle, scimmie curiose tra i rami.
Vibrano tamburi.
Albero, cuore che batte,
scorrono i suoni ondeggianti.
 
Márcia Theóphilo, 1999























Mboi-guaçú
Portano i cesti con la manioca, le donne, sfiorando con i piedi le rive del fiume. Kuambú vede passare Kupahúba e un fiume immaginario gli percorre la mente: è una corrente che trascina in sè tutti i fiume della terra. Ardeva la sua pelle, chiuse gli occhi il sole silenziose carezze sul corpo di Kupahúba, toccando i piccoli seni.

È ancora una fanciulla Kupahúba e lui
dovrà aspettare il rito di iniziazione
amorosa. Con la sua mente viaggia
nell’ aria e tra le nuvole. Ieri ha sognato
un dente che volava e un odore mai sentito.
Sullo spiazzo con le altre Kupahúba si prepara
per essere iniziata. Per tre mesi
lui non potrà vederla. Tutto gira, gira.
lei si avvicina e lui sorride
Dentro il suo corpo una forza divora
le acque di fiumi e di laghi.
È lui Mboi-Guaçú dai mille occhi
avvincerà e stringerà Kupahúba
ma l’Amore Attenuerà la forza.
“Vattene, Mboi-Guaçú”. Implora Kupahúba.

Flauti e maracas cominciano a suonare
ritmo lento all’inizio, poi frenetico.
Kuambù pensa alla profezia: “Kupahúba
sarà amata dal mito” vuole gridare
ma nessun suono arriva alla gola.
Tutto cominciò al mattino.
Il tempo prometteva pioggia.
Dal cajueiro odorosi i frutti pendevano
nell’umida e densa calura:
Kupahúba attrasse Mboi-Guaçú,
serpente-arcobaleno, con il suo incanto.
Lui farà offerte alla divinità giaguaro
perché mantenga sempre vivo in lei
il fuoco del suo desiderio
e morbida la sua pelle. Vivande e offerte di fiori nel rituale
brillanti i mille occhi di Mboi-Guaçú
toni d’azzurro e turchese e giallo
illuminano gli abbracci.
Questo è un fuoco che vuole proseguire,
sostanza sessuale del sole,
che penetra
le bacche profumate di araticum
e con il suo profumo
diviene più seducente.
“portami con i miei mille occhi fra le stelle
fa che un altro guerriero, un dio terreno,
non possa guardarla”.
Prega Mboi-Guaçú e inizia
il suo cammino lungo il corpo di Kupahúba.
Kupahúba ora crede di sognare
neppure ha salutato la pintassilga
né la saracura. Tutti conoscono
la devastazione che al suo passare
Mboi-Guaçú lascia in un villaggio.
Senza pietà il tempo scorre nel corpo
di piante e animali, Mboi-Guaçú
ha perduto i suoi colori accesi,
solo il brillio dei suoi occhi rimane
sotto il chiarore lunare.
Dondolato dal vento, il muricì
scrolla i frutti dai rami.
sconvolte le bestiole che abitano
gli alberi, vivono lo scompiglio.
Ora il canto si fa sempre più alto
dai maracas i pajés intonano invocazioni.
Il sole si insinua con i suoi raggi
lo accompagna il canto degli uccelli
il grido degli animali. E la foresta
respira. La foresta respira sollevata.
Mboi-Guaçú è scomparso.

Madre d’acqua in: Ho
Acqua, pensavi di dormire
nel nido della terra
ma così non fu
torrida estate
sei spessa, solida, liquida
sei viva, ma non lasciarmi
non so vivere senza di te.

I sogni vanno alla deriva
su un’isola di colori
scavando l’anima e guardando la luna
amore che fruga nel fondo della valle
inondata dall’acqua
La pioggia ha sapore amaro
sassi, foglie e nuvole
nuvole carnose
pioggia, perché non sei più dolce come prima? 


E l’anima dell’acqua diviene vento
ondeggia il vento tra le foglie
erano sparsi per il bosco
suo era il corpo di muschio
quando acqua e vento s’incontrano
nasce un fiore nel ventre della terra
mormora il vento fra le foglie
voci lontane evocando
assumono i colori della notte. 


Foglie che si moltiplicano a altre foglie
io voglio il verde che generoso si rinnova
tutto ritorna all’essenza primordiale
le foglie crescono e cadono dagli alberi
triangoli e quadrati sparsi al suolo
acque fresche che offrono ristoro
avvolte dal profumo dei fiori
e delle siepi selvatiche
ecco, fiume sconfitto,
io voglio cantare il tuo dolore.
Qualcosa di vago
fumo e sapori somiglianti
Sei ancora vivo, utero pulsante
non dimenticare il tuo passato di fiume
pieno di pesci, nella tua voce forte
di quell’azzurro, racconta:
ci sono nuvole nel mondo
che si sciolgono in veleni
nuvole nere sul mondo
come braci d’incendio
e nuvole di polvere.

Ma non sapeva, non sapeva
nutrirsi di vari odori
Quando il vento apre la sua bocca
le nuvole producono piogge
neve, o anche ghiaccio.
Reale e mutevole nel fiume
la musica del vento sulle acque.

La notte in: Home / Io canto l'Amazzoni
In principio non c’era la notte. Non si conosceva
la notte. C’era soltanto la luce ed era
così intensa, ai tropici pareva di andare
per ere di azzurro, di vermiglio, di verde.
Era così forte la luce che pareva di fluttuare
nei colori nelle piante.
Quel che non aveva parola si parlava
si parlavano gli alberi e pensavano coi fiori.
Nessuno conosceva il nero
soltanto esistevano i colori
che emanavano luce, che distribuivano energia-pensiero
Ma non si dormiva
l’uomo non conosceva stanchezza
ma non sapeva la dolcezza del riposo
il silenzio e la musica
perché la musica nacque con la conoscenza dei primi ritmi
e con la notte nacque il primo canto.

Márcia Theóphilo – 1979

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