Joumana Haddad e Dunya Mikhail, poetesse arabe contemporanee


Sono dolci, arrabbiate. Sono donne. Donne che gridano, che guardano fuori. Donne che si riappropriano di un corpo, lo forgiano col tessuto delle parole, ci giocano col pensiero, lo stringono tra le mani per sentirne la forza pulsare sotto le dita. Donne che con la scrittura raccontano, denunciano e si liberano come i versi di Zhabiya Khamis degli Emirati Arabi Uniti “L’anima sogna qualcuno che la ospiti, i piedi sognano di camminare con questo ospite (…) gli occhi sognano una lingua segreta che non ha bisogno di parole”. Nata nel 1958, laureata in Scienza politiche e Filosofia all’Università dell’Indiana e in Letteratura araba moderna presso l’Università Americana del Cairo. A causa dei suoi scritti messi al bando è stata incarcerata per cinque mesi senza processo. In Africa del nord troviamo la libica Fatima Mahmoud. “Il poliziotto prepara manette per la finestra, un catenaccio per il vento e per il resto dell’eternità inventa un’accusa, un torturatore e un patibolo”. La sua rivista femminile La nuova Shahrazad, pubblicata a Cipro e distribuita in tutto il mondo arabo, fa da osservatorio permanente sui conflitti fra le donne e le forze conservatrici. Dopo aver criticato il regime libico è stata costretta a chiedere asilo politico in Germania, dove attualmente risiede. Poi c’è l’algerina Rabia Djelti. “Stelle tranquille! Non svelatevi questa sera, perché la luce è un peccato quando la morte dispiega le sue ali”. Minacciata dai fondamentalisti islamici per le sue posizioni audaci sulla condizione della donna, Rabia attualmente vive in Francia. Che venga affrontata con provocazione o con dolcezza, la questione femminile è una costante nei lavori di queste poetesse. Come scrive Hamda Khamis: “Ogni corpo è un essere vivente. Ogni poesia è femmina”. La poesia araba nasce in epoca preislamica e trae ispirazione da Enheduanna, sacerdotessa sumera vissuta tra il 2285 e il 2250 a.C., che compose le sue opere nell’alfabeto cuneiforme ed è considerata la prima poetessa e scrittrice della storia. Accanto a lei, altra musa ispiratrice delle poetesse arabe contemporanee è la biblica Lilith, demone notturno tormentatore di uomini, ripresa anche dalla tradizione ebraica quale tentatrice di Abramo.

I versi delle poetesse arabe ruotano principalmente intorno a due temi, trasgressione e sensualità, che per noi sono forse scontati, ma che nei Paesi islamici sono un tabù inviolabile. Soprattutto nelle regioni dove l’ideologia tradizionalista e oscurantista wahabita obbliga le donne a sottostare ai precetti coranici, considerati inappellabili e inconfutabili. Trasgressione, eros, quindi, ma non solo. Le poesie in prosa di Maiun al-Saqr al-Qasimi, pittrice oltre che poetessa, che vive negli Emirati Arabi contengono una lirica dedicata all’amore difficile da ignorare, ma il perno dell’antologia è ovviamente la ribellione allo sciovinismo e alla censura sociale. Come quella di Fawziyya Abu Khalid, attaccata in Arabia Saudita per essersi scoperta il capo e aver letto poesie in pubblico. Bandita dall’Università di Riyad nel 1996, nonostante ciò non ha smesso di comporre versi «indecenti» di ribellione contro la figura maschile. «Ahimè ho scoperto/ che la tua spina dorsale/ era solo una colonna di nebbia gelata/ nello specchio orientale di Narciso e tu: niente/ più di un messaggero del Sultano/ un altro ruffiano che osanna le virtù dei frutti della mezzaluna fertile», ha scritto. Parole e versi che possono significare qualcosa solo se si conosce un proverbio saudita che dice: «Rompi una costola a una ragazza e ne ricresceranno dieci».


La poesia araba è stata rivoluzionata negli anni Quaranta dall’irachena Nazik al-Mala’ika, acerrima nemica del comunismo nel suo Paese e costretta a riparare in Libano, che ci narra l’indifferenza nei confronti delle donne, persino dinnanzi alla loro morte:“(…) Ci ha lasciati senza un pallore di gota o un fremito di labbra, le porte non hanno sentito nessuno narrare della sua morte, nessuna tenda alle finestre stillante dolore (…) La poetessa e pittrice Suzanne Alaywan con il suo carico di dolore “(…) Gli altri sempre con le loro scarpe infangate sulla superficie della mia anima”. Siriane sono invece A’isha Arna’ut, Saniya Salih e Maram al-Masri, quest’ultima con le sue pene d’amore narrate in versi: “Sono la ladra dei dolci, esposti nel tuo negozio, le mie dita sono appiccicaticce, e non sono riuscita, a metterne uno solo in bocca”. Dall’Egitto Iman Mersal, docente all’Università di Alberta in Canada che riporta l’attenzione alla condizione della donna: “(…) tu sei buono, ma hai perso la saggezza, quando mi hai fatto credere che il mondo è simile a un istituto femminile, e che io devo annullare i miei desideri, per continuare a essere la prima della classe”. Fatima Na’ut completa il contributo egiziano a questa raccolta con: “(…) Gli infelici hanno dimenticato che dietro le loro orecchie ci sono le branchie e non riescono a respirare”. Voglio ricordare Hoda Ablan dallo Yemen, laureata in Scienze Politiche, di Saadiyya al-Mufarrih, laureata in Lingua Araba all’Università del Kuwait, di Wafaa Lamrani insegnante di Letteratura in Marocco, di Fawziyya Abu Khalid dall’Arabia Saudita, laureata in Sociologia presso l’Università Americana di Beirut, di Nujum al-Ghanime Maisun al-Saqr al-Qasimi dagli Emirati Arabi Uniti, Dal Bahrain la voce di Fawziyya al-Sindi, e di Hamda Khamis, laureata in Scienze Politiche all’Università di Baghdad. Suoi i versi:“Ogni corpo è un essere vivente. Ogni poesia è femmina”. Dalla Libia,Laila Naihum con la sua freschezza:“(…) che meraviglioso succo di mango, odore di barbecue, passanti sorridenti. Che travolgente felicità mi pervade!” Zakiya Malallah scrive invece dal Qatar, Amal Musa dalla Tunisia, Rabia Djelti dalla Francia dove è rifugiata a causa dei contrasti avuti in Algeria circa la condizione della donna. Ed infine dalla Palestina Fadwa Tuqan e da Israele Siham Dawud, entrambe voci della nostalgia profonda per la propria patria perduta. Della prima sono i versi: “(…) Desidero solo morire nella mia terra,(…) Desidero solo restare nel senso della mia patria, terra, erba o fiore”. Della seconda invece: (…) Mi struggo per le folate di vento della mia terra – sempre in partenza, lascio l’amore presso indirizzi che non possono nemmeno essere cercati (…)”.

Dunya Mikhail (Bagdad,1965)

è una poetessa irachena cristiana nata a Baghdad nel 1965, cittadina americana dal 2007 risiede negli Stati Uniti. Ha lavorato presso il giornale iracheno “The Baghdad Observer”, ma di fronte alle crescenti minacce e vessazioni da parte delle autorità irachene per i suoi scritti, nel 1990 fu stata costretta a fuggire negli Stati Uniti. Ha studiato nella Wayne State University di Detroit. Nel 2001 ha ricevuto dalle Nazioni Unite il premio per la libertà di scrittura. Mikhail sa parlare e scrivere in Inglese, Arabo e Assiro. Attualmente vive in Michigan dove lavora come coordinatrice delle risorse arabe nel locale distretto scolastico e universitario. Dunya, da quando risiede negli Stati Uniti, è impegnata nell’ambito della cooperazione e dello sviluppo tra arabi e occidentali, facendosi portavoce per le migliaia di suoi connazionali con la sua poesia. Nel 2001 ha ricevuto dalle Nazioni Unite il Premio per la Libertà di scrittura. Al centro della sua poesia c’è la guerra. Nelle sue parole si coglie la luminosità gelida della morte e l’indomabile speranza della vita. La guerra subisce un processo di personificazione del tutto originale, intenzionalmente ironico, che trova il suo culmine nei versi di chiusura: La guerra lavora molto- non ha simili-ma nessuno la loda.La guerra puntualmente uccide e disintegra città e villaggi, non risparmia nulla, neppure l’ospedale, neppure l’innocenza dell’infanzia. La guerra ha i suoi obiettivi e serve a tutti i potenti di ogni cultura, razza e religione e quel «nessuno la loda» è un’accusa pesante, su cui dovremmo riflettere. In questa sua poesia sulla guerra, non poteva mancare la figura del dittatore. Noi sappiamo che probabilmente Dunya Mikhail si è ispirata a Saddam Hussein, dal quale è riuscita miracolosamente a fuggire nel 1990. Dietro quel dittatore c’è la storia dell’Iraq e del Medio Oriente con le sue contraddizioni e le sue grandezze. Per la guerra si lavora molto, scrive la poetessa, per la guerra si lavora come per null’altro su questo pianeta, ma, proprio perché si tratta di guerra, c’è alle sue spalle un vergognoso lavoro sommerso, che è come una partita a scacchi. Il popolino di cui parla «regista di una grande tragedia» non è il grande popolo arabo, orgoglioso delle sue origini e della sua storia, è un pubblico anonimo, il cui applauso «scuote le ossa». Dunya non grida, non schiaffeggia, sfila da sola in una manifestazione muta.
 
La guerra lavora molto

La guerra
com’è
seria
attiva
e abile!
Sin dal mattino
sveglia le sirene
invia ovunque ambulanze
scaglia corpi nell’aria
passa barelle ai feriti
richiama la pioggia dagli occhi delle madri
scava nel terreno
dissotterra molte cose dalle macerie
alcune luccicanti e senza vita
altre pallide e ancora vibranti.

Suscita più interrogativi
nelle menti dei bambini.
Intrattiene gli dei lanciando
missili e proiettili
in cielo.

Pianta mine nei campi
semina buche e vuoti d’aria
sollecita le famiglie a emigrare
affianca i sacerdoti
quando maledicono il diavolo
(disgraziato, la sua mano è ancora infuocata. Brucia.)

La guerra è inarrestabile, giorno e notte.
Ispira i lunghi discorsi dei tiranni
conferisce medaglie ai generali
e argomenti ai poeti.

Contribuisce all’industria di arti artificiali
fornisce cibo alle mosche
aggiunge pagine ai libri di storia
mette sullo stesso piano vittima e assassino.
Insegna agli innamorati come si scrivono le lettere
insegna alle ragazze ad aspettare
riempie i giornali di storie e fotografie
fa rullare ogni anno i tamburi per festeggiare
costruisce nuove case per gli orfani
tiene occupati i costruttori di bare
dà pacche sulle spalle ai becchini
sorride davanti al capo.

La guerra lavora molto
non ha simili
ma nessuno la loda.
 
Sono rimasta colpita dai suoi versi nei quali la paura della guerra e della morte permea tutte le parole che li compongono, conferendo al loro suono un che di lacerato e amaro, come i grani di sale quando capitano per caso sotto i denti. La poesia La Gemma è un piccolo gioiello d’armonia tra significato delle parole e suono. I versi raccontano tutta la storia e la sofferenza di Dunya e del suo popolo, incarnati dalla gemma, che «Non è più …» perché  «il ponte che eravamo / abituati ad attraversare / il ponte / l’ha gettato nel fiume la guerra». Se il ponte è stato abbattuto dalla guerra, c’è sempre una gemma che galleggia sopra la nave che affonda, una gemma che non ci farà mancare la sua luce azzurrognola e la sua speranza di vita: è la poesia, è la cooperazione e l’incontro tra la cultura araba e quella occidentale.

La gemma

Non è più sul fiume
non è in città
non è sulla carta
il ponte che era
il ponte che eravamo
abituati ad attraversare
il ponte
l’ha gettato nel fiume la guerra
come una signora
la sua gemma azzurra
da sopra il Titanic.
Joumana Haddad

Libanese, cristiana, poliglotta (parla sette lingue), si ispira alla figura mitologica di Lilith, citata nel libro di Isaia come prima moglie di Adamo, cacciata dal paradiso e trasformata successivamente dalla tradizione mesopotamica in un demone notturno che tormenta il sonno dei bambini maschi. In Io sono una donna Joumana Haddad descrive bene la sua idea di libertà femminile, l’essere donna nel mondo arabo.
 















Nessuno può immaginare
quel che dico quando me ne sto in silenzio
chi vedo quando chiudo gli occhi
come vengo sospinta quando vengo sospinta
cosa cerco quando lascio libere le mani.


Nessuno, nessuno sa
quando ho fame quando parto
quando cammino e quando mi perdo,
e nessuno sa
che per me andare è ritornare
e ritornare è indietreggiare,
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera,
e quel che seguirà è una tempesta.

Credono di sapere
e io glielo lascio credere
e io avvengo.

Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia
libertà
fosse una loro concessione
e ringraziassi e obbedissi.

Ma io sono libera prima e dopo di loro,
con loro e senza loro
sono libera nella vittoria e nella sconfitta.

La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della mia prigione è la loro lingua
ma la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio
desiderio
e il mio desiderio non riusciranno mai a domare.

Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
e io glielo lascio credere
e avvengo.
 
L’audacia della poetessa emerge in tutta la sua forza ne Il ritorno di Lilith, in cui si cala nel ruolo del demone femminile della Mesopotamia: “Io. Il feto del poeta, perdendomi ho guadagnato la mia vita. Ritorno dal mio esilio per diventare la sposa dei sette giorni e le ceneri di domani”.
 
Lilith antichissimo presente già nella mitologia sumera, è la prima “Eva”, colei che, per non aver ceduto in nulla al principio di eguaglianza, sarà trasformata dal maschio dominatore in un essere terrificante, venuto sulla terra per strangolare, ghermire, sedurre, avvelenare, assassinare, senza che l’uomo la comprenda. Lilith, mito che ha percorso tutte le culture simboleggia la prova necessaria della separazione che ciascuno deve affrontare per vivere, pena la propria aridità. Haddad ne è pienamente consapevole quando afferma: “Io sono Lilith E ritorno dal mio esilio Per ereditare la morte della madre che ho generato”.

In questi versi la ribellione di Lilith alla figura di Adamo a cui lei non volle essere sottomessa:“Io sono Lilith, la dea delle due notti che ritorna dall’esilio…Irresistibile è il mio fascino perché i miei capelli sono corvini e lunghi, e di miele sono i miei occhi. La leggenda narra fui creata dalla terra per essere la prima donna di Adamo, ma io non mi sono sottomessa”. Disobbediente, lo abbandonò nel paradiso terrestre e se ne andò. Dio allora creò Eva dalla costola di Adamo, perché non seguisse le sue orme. Per questo Lilith divenne nell'immaginario collettivo un demone, emblema di trasgressione e lussuria, per poi subire nel cristianesimo una totale 'damnatio memoriae'. Questa immagine femminile antecedente al peccato originale, viene riportata alla luce dalla poetessa libanese come “un personaggio forte e libero che a un certo punto decide di abbandonare il Paradiso perché non voleva più obbedire all’uomo”. Attraverso la figura mitologica di Lilith ha voluto raccontare la sua storia di donna e lo fa con queste parole: “Bisogna innanzitutto assumersi la responsabilità di essere diversa dagli altri e quindi accettare l’idea di non far parte di un gruppo. So bene che l’appartenenza a un clan dà un senso di sicurezza ma io preferisco gestire la mia individualità, lavorare per cercare una mia identità. Non nascondo che si paga un prezzo molto alto quando si decide di essere fuori dal coro: non far parte del mainstream implica che devi saper guardare l’altro negli occhi, che sia un uomo o una donna non importa, e soprattutto essere all’altezza delle tue scelte. Devi anche essere consapevole che andrai incontro a sguardi a volte discriminatori, a volte accondiscendenti o anche odiosi ma se si vuole proseguire su questo percorso mai perdere la forza e lavorare ogni mattina per rigenerare l’energia che ti serve per affrontare la giornata. La gestione della fragilità è un punto importante, a volte abbiamo il diritto di essere fragili ma non bisogna permettere alla vulnerabilità di diventare un ostacolo al proprio percorso personale.
 Penso che non solo le donne arabe abbiano bisogno della figura di Lilith ma anche all’Occidente, dunque anche all’Italia, può servire come spunto di riflessione. Il personaggio di Lilith è senza dubbio affascinante nella rappresentazione della donna libera e motivo di riflessione. Ma, che questo sia chiaro, non ho voluto trasformare Lilith nel simbolo delle lotte femministe o neo femministe perché sono convinta che il femminismo abbia fatto del bene ma anche commesso degli errori tanto in Occidente quanto in Oriente. La mia opinione è che quello sta ora succedendo in Occidente è molto simile a quello che da alcuni anni si sta verificando nel mio Paese, in Libano. Da noi la gran parte delle donne ha una maggiore libertà di movimento rispetto alle altre donne del mondo arabo. Il problema è che queste donne purtroppo si accontentano di piccole vittorie superficiali, portare la minigonna piuttosto che ricorrere al silicone, non per niente il Libano viene chiamato anche la Repubblica del silicone. Quello che dico io è che questa non è la vera emancipazione della donna; anche nelle donne occidentali vive questa illusione di libertà che, però, non fa altro che distrarle dagli obiettivi più seri e utili, ad esempio dalla battaglia sulle leggi sulla parità tra i due sessi. Non ci dobbiamo far distrarre dalle piccolezze, la strada è lunga e faticosa, e dobbiamo armarci di forza e pazienza per capire quali siano in veri bisogni e non accontentarci delle vittorie di Pirro. Tante donne mi ringraziano perché si sono ritrovate in questo personaggio. Ci sono anche degli uomini che vogliono delle compagne come Lilith e che non sono attratti dalle donne come Eva. Ma è inutile nascondere che esistono uomini che hanno paura delle donne forti e donne che non hanno il coraggio di tirar fuori alcuni aspetti della propria natura. Sono, però convinta che tutte quante le donne siano custodi del potenziale per diventare delle moderne Lilith.”

Commenti

Post più popolari