Maria Luisa Spaziani e la Villa dei ciliegi
E’ sicuramente definita una delle
personalità di rilievo del panorama letterario del XX secolo. Nasce a Torino il
7 dicembre 1924 in una famiglia borghese ed agiata e passerà la sua infanzia in
via Pesaro 24 nella cosiddetta “villa dei
ciliegi”, acquistata dal padre, proprietario di un'azienda che produceva
macchinari dolciari. Grazie alle buone possibilità economiche della famiglia,
la giovane poetessa poté dedicarsi fin da subito agli studi letterari. All'età
di dodici anni scopre la figura di Giovanna d'Arco e ne rimane affascinata;
sarà un interesse talmente forte e profondo che sfocerà, nel lontano ʽ90, nella
pubblicazione dell'omonimo poemetto in ottave. A soli diciannove anni fonda la
rivista letteraria “Il Girasole”5, che evolverà ne “Il Dado”6, ma non
parteciperà mai con scritti propri, non sentendosi poeticamente matura. Alla
rivista collaborano intellettuali di spicco come Sandro Penna, Umberto Saba e
Vasco Pratolini. Sono proprio gli anni in cui Maria Luisa Spaziani incomincia a
tessere sodalizi intellettuali (ricordiamo Emilio Cecchi, Mario Luzi, Leonardo
Sinisgalli, Ezra Pound) che ben presto muteranno in amicizie intense, aprendole
le porte verso il “mondo letterario”. Si laurea con Titolo in onore di Eugenio
Montale. Ebbe grande interesse per la letteratura francese nonché per la
Francia stessa, paese dove soggiornerà per lunghi periodi e che le donerà una
genuina ispirazione poetica.
Nel 1949 conosce Eugenio Montale al
termine della conferenza “Poeta suo malgrado” tenuta dal poeta stesso al teatro
Carignano di Torino. Questo incontro cambiò le loro vite, stando a quanto viene
affermato dalla poetessa stessa. Ricordiamo che Maria Luisa Spaziani fu una
delle muse di Montale e nella sezione della Bufera intitolata Madrigali privati
possiamo scorgere una descrizione inedita e poetica della Volpe (senhal che
Montale attribuì alla poetessa). Sono questi gli anni in cui incomincia la sua
carriera poetica e nascono i primi componimenti di una lunga serie. Nel 1953 vince una borsa di studio
e va a Parigi: è il primo soggiorno nella capitale francese. Il padre non
voleva prendere sul serio l'inclinazione artistico-letteraria della figlia per
paura di grandi delusioni, e più volte ripeteva che “mille ne partono e uno ne
arriva”. Decise tuttavia di assecondare il sogno di Maria Luisa e le consegnò
300.000 lire per pagare l'edizione delle poesie che ella decise di stampare
presso il tipografo Tallone, rinomato stampatore torinese. Durante il tragitto
da casa alle poste, la poetessa cominciò a chiedersi perché mai non avesse
prima provato ad inviare la raccolta a Mondadori. Cambiò l'indirizzo del pacco
e lo inviò all'editore milanese, senza raccomandata e senza alcuna lettera di
accompagnamento che dopo soli quindici giorni le propone un contratto. La
raccolta uscirà nel 1954 con il titolo Le acque del Sabato, segnando il suo
esordio poetico. Nel 1962 esce, nuovamente presso
Mondadori, Il gong. Tappa importante per la produzione poetica sarà L'utilità
della memoria (1966). L'occhio del ciclone (1970) si apre
all'insegna dei colori caldi del sud Italia, ci si trova catapultati in una
soleggiata Sicilia e in una Calabria brulla. Sono gli anni in cui Maria Luisa
Spaziani ottiene la cattedra di lingua e letteratura francese all'Università di
Messina e per 28 anni sarà pendolare da Roma. I paesaggi nordici ritornano a far
breccia nella poesia della Spaziani in Transito con catene (1977). Sarà con La
geometria del disordine, uscito nel 1981, che la poetessa vincerà il premio
Viareggio; dopo cinque anni esce La stella del libero arbitrio, raccolta che
recupera i paesaggi del sud e il tema della madre scomparsa. Torri di vedetta (1992) e I fasti
dell'ortica (1996), quest'ultima vince ben cinque premi letterari e getta luce
su avvenimenti storici quanto autobiografici. Nel 1999, a soli due anni di
distanza, viene pubblicata La radice del mare, raccolta molto interessante per
la riflessione sul legame mare-musica-parola. Nel 2002 esce la raccolta che la
Spaziani definirà “cuore del mio cuore”,
modo elegante e altamente metaforico per definire l'attaccamento verso tale
libro di poesie d'amore e vita, è La traversata dell'oasi. Se in questa
raccolta si parla di amore, in quella successiva, La luna è già alta (2006), si
contempla la dimensione del post-amore. Fonda, in onore dell'amico Eugenio
Montale, l'Universitas Montaliana nel 1978 e, dopo averne assunto la presidenza
tra il 1981 e il 1982 istituisce il Premio Montale. Maria Luisa Spaziani viene
candidata al Nobel per ben tre volte. Seguirà in seguito l’insegnamento
degli ermetici i quali affermavano che la parola poetica non deve descrivere, bensì evocare. Maria
Luisa Spaziani ebbe sempre un occhio di riguardo verso gli ermetici fiorentini
e infatti racconta che quando era diciottenne si era recata a Firenze per
osservare gli intellettuali che si riunivano al caffè Le Giubbe Rosse in piazza
della Repubblica:
“Vidi per la prima volta Mario Luzi attraverso i vetri delle Giubbe Rosse.
Non avrei mai avuto il coraggio di entrare e pregai un cameriere di indicarmi,
dall'esterno, i poeti di Firenze. Il nome di Luzi lo conoscevo perché avevo al
liceo un professore geniale al quale devo pressoché tutto della mia prima
formazione letteraria. Si chiamava Vincenzo Ciaffi. È proprio grazie a questo grande maestro che,
credo per la prima volta in un liceo italiano, si siano fatti i nomi di
Montale, Sinisgalli, Penna e Luzi. Nei miei appunti di quelle lezioni Luzi
aveva due zeta. Mi limitai a stamparmi nella memoria i volti di quei giovani
fiorentini visti attraverso la nebbia dei vetri”. Questa breve testimonianza è
preziosa, si coglie l'emozione di una giovane studentessa nel vedere i poeti da
lei studiati e amati riunirsi e discutere di cultura.
L'esordio poetico: Le acque del sabato
Sere di inverno
Sere di inverno al mio paese antico
dove piomba il falchetto dentro i pozzi d'aria
tra l'uno e l'altro campanile.
Sere rapite a un'onda di sambuchi invisibili
ai vetri dei muretti d'ultimo sole accesi
dove
indugia non so che gusto d'embrici e di neve.
Vorrei cogliervi tutte
o mie nel
tempo ebbre
sfogliate
voci lungo l'arida corona dell'inverno
e
ricomporvi in musica
parole sopra uno stelo eterno.
M.L Spaziani, Le acque del Sabato
Le acque del Sabato raccoglie
componimenti scritti dalla poetessa tra i venticinque e i trent'anni. Questa
prima opera è fortemente legata ai luoghi d'infanzia, in particolare alla
“villetta dei ciliegi” e alla campagna astigiana (la madre era nata a
Mongardino d'Asti) e, non a caso, verrà definita come “il libro della mia
preistoria”. Sono anni in cui la Spaziani viaggia molto e nella raccolta si
possono scorgere poesie su Venezia, Edimburgo e Parigi. Nei suoi versi, fin dai primi
scritti, emerge la centralità della parola, come strumento di verità volta a
cogliere la concretezza della vita. La parola si lega al concetto di poesia
come atto di contemplazione, si avvicina
alla preghiera proprio nel momento in cui il poeta ricerca la solitudine. La
poesia è fatta di parole animate dal sentimento che le rende cariche di
significati altri. La Spaziani scrive: “la
poesia si fa con le parole, è vero, ma dietro le parole ci deve essere
l'emozione per la cosa”.
Ora scende il grigiore in mezzo ai vicoli
che un liuto strazia e allarga oltre l'umano mio
tempo
arido ai ricordi.
E mattini ritornano leggeri
agili sui selciati di rugiada i nostri passi
i nostri lunghi indugi sugli eroi dell'Iliade.
O mattini
d'estate
che memoria del dolore gelosa in sé contrasta!
Un liuto sospirava una canzone
dietro le canne polverose.
Memoria-autunno-morte
biondo cerchio, sempre più oscurandoti mi stringi,
feroce amore.
Ricordo una
stagione
Ricordo una stagione in mezzo a colli immensi
affaticata
dal soffiare della notturna tramontana.
Un gelso gemeva negli strappi
così alto
che talora il suo grido mi svegliava.
Ieri nel ritornarvi non sembrava passato altro che
un giorno.
La tramontana ci infuriava intorno.
Contro il cancello, intatta
era restata una mia antica rosa morsicata.
La poetessa ricorda i luoghi amati,
i colli colmi di una natura generosa mossa dal soffio della tramontana che
piega il gelso sofferente. La natura viene umanizzata, l'albero grida, le urla
di dolore che destano l'Io lirico. A distanza di tempo nulla sembra essere
cambiato, al vento impetuoso però resiste una antica rosa “morsicata”, forse simbolo della vita che continua nonostante
la sofferenza. La rosa è il fiore simbolo della bellezza e dell'eleganza,
tuttavia anche le cose belle possono portare con sé dei lati negativi, come la
rosa ha le spine.
Polvere è anche cielo
Io piango lacrime di morte sulla casa che
invecchia
sul tetto della mia casa vuota di incantesimi.
Il ciliegio è solo un ciliegio
e più nessun amore mi attende oltre l'angolo della
strada.
Agosto smorza il verde con la polvere
e polvere è anche il cielo
io piango le mie lacrime
su questo deserto che anche l'ultimo angelo ha
tradito.
E’ la casa di famiglia, la puntuale
presenza del ciliegio, la poetessa piange “lacrime
di morte sulla casa che invecchia, /sul tetto della mia casa vuota di
incantesimi. L'abitazione e i luoghi circostanti diventano un deserto,
simbolo dell'aridità e della sterilità, di un passato che se ne sta andando e
l'uomo non può far nulla per trattenerlo. Versi che appartengono alla
giovinezza.
La luna
la ritroviamo in innumerevoli
poesie, viene quasi sempre associata alla luce, a una lampada, alle insegne
delle botteghe e dei caffè. Spadroneggia nella notte, si adagia sul sonno
guida, illumina i vicoli. Un elemento che ricorrerà anche nei Madrigali privati
di Montale, a lei dedicati. Il ciliegio
che si trovava nel cortile della casa materna ritornerà a più riprese nella
poesia della Spaziani. La luna diventa una costante nella sua poesia.
Luna d'inverno
Luna d'inverno che dal melograno
per i vetri di casa filtri lentamente sui miei
sonni veloci, di ladro,
sempre inseguito e sempre per partire.
Come un velo di lacrime t'appanna e presto l'ora
suonerà...
Lontano, oltre le nostre sponde,
oltre le magre stagioni che con moto di marea
mortalmente
stancandoci ci esaltano e ci umiliano
poi, splenderai lieta tu,
insegna d'oro all'ultima locanda,
lampada sopra il desco incorruttibile al cui
chiarore
ad uno ad uno i visi in cerchio rivedrò
che un turbine vuoto e crudele mi cancella.
Lontano dalla casa la luna dirige le maree, le
alza e le abbassa, è simbolo di tutti i vissuti, diventa emblema della
solitudine quando la poetessa si trova lontano dalla sua patria, in una città
fredda dalle tinte fosche non paragonabili alle luci.
Contro il
cielo che imbianca,
solo un
cipresso e il campanile
e un roco
carosello di rondini s'imbruna.
Ma l'Italia è
lontana.
E questa è
valle e tempo e suono della luna.
La malinconia viene descritta in
modo diverso nel componimento Giudecca, la città di Venezia porta con sé un
alone di mistero e di attesa e la poetessa osserva i giochi d'acqua della
laguna, ascolta il canto lamentoso dei gondolieri che si inabissa nelle acque
scure. L'atmosfera è dominata dalla luna, forse il sole splende in un altro
luogo rigoglioso e proteso verso la vita.
Lontanissimo
forse il sole splende
su voli in
gloria di cicogne,
forse una
bionda stagione i ricchi frutti per te matura,
per te
s'inghirlanda.
Io qui
raccolgo i cerchi che la riva pigra rimanda.
Sono la tua
statua senza occhi né mani.
Quella storia
che chiamano la vita avrà un senso domani.
Intensa la descrizione della luna,
vista come un foglio che si adagia sull'acqua, lì si riflette e sembra
“disfogliarsi” perché muta continuamente i suoi contorni incerti sulla laguna
mossa dal passaggio di una gondola. I contorni incerti della luna sono gli
stessi della vita, che non sempre sembra aver un senso. Un componimento che
sintetizza molto bene il concetto della solitudine.
La poetessa colloquia con la luna in giorni di
triste solitudine e ma anche di felicità.
Nella nebbia dormiamo,
eppure la luna c'è,
se ne sta assorta e remota nei suoi feudi lontani.
Non vista comanderà nelle maree,
sui miei pensieri in alto intermittenti?
Con lei ho colloquiato in giorni di solitudine,
quando fra grigio e nero,
s'intrecciava il mio tempo.
Nemmeno quand'ero felice l'ho dimenticata,
e nei suoi mari senz'acqua saltavo,
delfino in amore.
Nella poesia 30 Giugno viene
rievocata con toni espressionistici la città di Milano, ma l'attenzione della
poetessa è rivolta tutta verso la natura, l'erba, la luna e la terra. Quest'ultima
è il luogo dove ognuno di noi ritornerà al termine della propria vita.
30 Giugno
Bruciano e si consumano le stelle,
regna la Grande estate.
Passano dentro l'ombra dei balconi
figure esauste dagli occhi lucenti.
Grava sopra gli asfalti la polvere
di Milano,
Al chiosco dei giornali i fogli gialli pendono come bandiere disertate.
Morder l'erba vorrei.
Morire un poco (con te, senza di te)
contro la terra che aspra inonda di profumo anche la luna piena
come quando (è certo) lunghe notti di grilli inebriate
come quando (è certo) lunghe notti di grilli inebriate
splenderanno di fuochi e di comete
sopra la cieca pietra che fu un giorno Maria Luisa.
“Pavese dice che quando era giovane
si commuoveva all'odore dei fieni; ora per commuoversi all'odore dei fieni
bisogna pensare alla commozione che si provava quando si era ragazzi, e questo
significa che il ricordo c'è- i fieni hanno un buon profumo- però non ci si
commuove più, un po' per colpa dell'olfatto che se n'è andato con gli anni, un
pò perché non si collega l'evento a immagini piacevoli”
La figura materna
Il paese di
mia madre
Alberi nudi dentro un tempo nudo sul cielo del paese di mia madre. Dove
s'ingorga l'acqua nei canali tra l'erba risecchita e la vite s'attorce nella
bruma con mani disperate. Gotico e lieve il colchico fiorisce -fiore
dell'elegia più lontana lungo la mia Sirmana, lento cielo d'inverno trascinato
verso nessuna foce. Battono radi uccelli il cielo del paese di mia madre.
Sostano a volte tra i pali delle vigne, o a sera in larghi cerchi sull'immenso
orizzonte di colli, nel silenzio di gelo che impietrisce anche la luna,
incidono nell'aria il grido inebriato.
La figura materna nell'opera di Maria Luisa
Spaziani è sempre presente, aleggia in quasi tutte le raccolte. Evoca il
ricordo dei luoghi natii, diventa simbolo di grazia, del mare che dona la vita
e ci richiama alle origini, è immagine dell'antica
pazienza che scioglie ogni nodo della corda. Sicuramente si può affermare
che la madre è una figura di riferimento, che ha accompagnato la poetessa in un
cammino di vita sia esistenziale che artistico.
Nella prima raccolta, Le acque del Sabato, la figura materna viene associata
principalmente al paesino di nascita, Mongardino d'Asti, che viene
descritto ora con toni nostalgici, ora con toni gioiosi. Il paese di mia madre fu
scritto intorno ai vent'anni e fu inserito nella raccolta come se fosse un
“talismano”. Questa dichiarazione denota l'attaccamento della poetessa alla
madre e a tutto ciò che le ricorda l'infanzia.
Sere di vento
Sere di vento
al mio paese antico, dove piomba il falchetto dentro i pozzi d'aria, tra l'uno
e l'altro campanile. Sere rapite a un'onda di sambuchi invisibili, ai vetri dei
muretti d'ultimo sole accesi, dove indugia non so che gusto d'embrici e di
neve. Vorrei cogliervi tutte, o mie nel tempo ebbre, sfogliate voci lungo
l'arida corona dell'inverno, e ricomporvi in musica, parole sopra uno stelo
eterno.
Troviamo la prima dichiarazione di poetica della
Spaziani, ed è interessante notare che essa viene espressa proprio in un
componimento “dedicato” alla madre. La poetessa ci aiuta a conoscere la madre e
ne descrive la delicatezza connaturata.
L'antica pazienza
Tu che conosci
l'antica pazienza di scogliere ogni nodo della corda e allevi un pioppo zingaro
venuto a crescere nel coccio dei garofani, lascia ch'io senta in te, come la
sorda nenia del mare dentro la conchiglia, la voce della casa che il perduto
tempo ha ridotto in cenere. Ma è cenere il pane scuro, sacro, -quello che
alimentavi col tuo soffio, nel forno buio della guerra- e reca imperitura in sé
la filigrana dei tuoi ciliegi dilaniati. L'allegria rialza la sua cresta di
galletto sui borghi desolati, come il lillà che ti cresce alle spalle passo a
passo, baluardo sul massacro. Raccoglie ancora e sempre il pigolante nido
abbattuto dal vento di marzo e ripara le falle della chiglia. Nessuno è senza
casa se l'attende a sera la tua voce di conchiglia.
La figura materna sembra essere
associata ad un marinaio che con grande calma cerca di sciogliere i nodi delle
corde, ma è anche una conchiglia che amplifica le voci e rimanda il suono del
mare. Nella lirica Accanto ai vetri ritroviamo il motivo
della luna, i suoi raggi filtrano dalla finestra e portano un messaggio,
avvertono che la presenza della madre preme sul vetro. Ella è portatrice di
parole che vengono paragonate a palle da tennis, con le quali la poetessa
gioca.
Accanto ai vetri
È l'ora della luna,
il suo
raggio di latte mi avverte
che a premere ai vetri è mia madre,
non il solare piccione.
Viene a portarmi parole di puro silenzio
da fare impallidire i dizionari.
Le sue parole sono palle da tennis,
gioco che non sussiste senza il partner.
È vero. Ma io sto accanto ai vetri,
nelle sere di luna, ben disposta a giocare,
a giocare.
Nella lirica Mia madre viene descritto un momento
di vita quotidiana segnato da una amara dolcezza. Il motivo centrale è la paura
della perdita di una persona amata, la paura di non poterla rivedere e ancora
peggio non poterne sentire la voce.
Mia madre
Le dicevo buonanotte al telefono.
Rispondeva un sussurro, buonanotte.
La sua voce staccata dal suo volto.
E a tradimento io la registravo.
Sapeva, la gentile, a cosa pensavo'
che un certo aprile era all'agguato,
che presto l'aspettava un chissà dove,
oltre la terra e il tempo.
Un aprile? In che anno?
Avevo letto che aprile è il più crudele dei mesi.
E venne la sua voce,
un buonanotte
ultimo il giorno cinque.
Mi resta quella voce registrata.
Viene da altre ere, altri pianeti.
Pura essenza in cui lei si trasfigura,
profumo vivo di fiore sprofondato.
In una intervista del 1999 la Spaziani spiega
l'occasione spinta della poesia:
“Avevo una
grande paura che mia madre ancora giovane, in quanto aveva settant'anni,
morisse. Lei venne a stare a Roma e ci sentivamo, per cui ho registrato la sua
voce, pensando di ascoltarla per quando lei non ci sarebbe stata più. L'ho
fatto a tradimento, ed era il famoso mese di aprile. T.S. Eliot dice: “Aprile è
il più crudele tra i mesi”. Era l'otto di aprile e mia madre è morta
all'improvviso in due giorni: ha avuto un ictus ed è scomparsa. E allora il
ricordo di quella telefonata ha dato origine a questa poesia. La poesia è una
grande metafora della morte, come la morte lo è della poesia, però di quella
morte che ci fa riprendere tutto dall'inizio immettendoci in un nuovo ciclo di
nascita e trasformazione. “
Che cos'è la poesia?
Se uso la parola è per pregarti di ascoltare il
mio fondo silenzio.
Non c'è ancora un linguaggio (o s'è dimenticato)
per tradurre ciò che a te ho da dire.
Un pagliaccio batteva su un tamburo.
Era musica d'angeli, secondo il suo cuore.
E non vedeva più nemmeno
l'orso che gli zompava accanto.
-M.L Spaziani,
La stella del libero arbitrio
“Poesia
significa contemplare da un privilegiato punto di osservazione ciò che scorre e
passa, tessere favole sulla memoria più o meno involontaria- complicità,
riscatto, metamorfosi, trovarsi in perfetta calma al centro della confusione.
La poesia è metafora di vita, si scrive per riordinare l'esistenza, per
imprimere i ricordi, per esprimere la meraviglia della contemplazione. Ma tutto
ciò avviene sempre da un punto di vista privilegiato, che è solo del poeta. ….
“La poesia è un paradosso dell'economia: è quel capitale che si moltiplica
quanto più lo si divide. I soldi, se li si distribuisce, vanno persi: meglio metterli in banca.
Invece nel caso della poesia bisogna farla conoscere e diffonderla, anche la
nostra quando ci crediamo: che questo atteggiamento non sia però né narcisismo
né vanità, poiché, appena si toccano questi tasti, è come se la poesia perdesse
piume e scaglie e ne rimanesse solo uno scheletro senza senso”.
La lucerna
Il poeta con il suo diadema di solitudine
è un'oliva schiacciata nel frantoio.
Potesse al mondo una lucerna sacra
brillare grazie a lei.
Il poeta viene visto come un profeta,
la sua è una vocazione e il suo destino è di
solitudine;
la poesia assume così un alone divino.
Lui era
l’Orso, lei la Volpe. Lui era il più grande poeta del Novecento, lei una
giovane e vibrante letterata. Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani, storia di
una amicizia amorosa mai finita.
«Avevo venticinque anni e morivo dalla voglia di incontrarlo. Conoscevo a memoria Ossi di seppia e qualche poesia delle Occasioni. Accadde al Teatro Carignano, nel gennaio del 1949. Montale mi guardò con un’intensità così forte che ne rimasi turbata. La mia era una famiglia borghese molto accogliente, che assecondava le mie passioni letterarie. Proust soprattutto, ma anche Montale. “Meno male che Proust è già morto”, fu il commento di mia madre alla notizia dell’illustre convitato. Eugenio ci avrebbe riso sopra, scusandosi poi con i miei genitori: “Mi dispiace non essermi ancora reso defunto”». Ci siamo molto divertiti insieme. Era persuaso che ogni giorno accadesse una scena comica. Bisognava solo trovarla. La sua era una risata a balzi. Prima cercava di arginarla, poi cedeva all’esplosione. Una volta rischiammo di essere cacciati dalla Scala. Era animato da un’inspiegabile antipatia per una ballerina classica. “Ha la faccia di una che perde le mutande in pubblico”, si lamentava. Cominciò il Lago dei cigni e dal tutù della poveretta prese a scendere una striscia di pizzo. Non posso dimenticare l’espressione grave di Montale mentre artigliava i due braccioli della poltrona: “Ci siamo!”. Scappammo dal palco piegati in due. Dopo il pranzo in famiglia, tornato al Corriere mi mandò un espresso. Poi sarebbero arrivate le gardenie, i profumi ricercati, le tenerezze, le poesie d’amore. Ma già durante il piccolo convivio era apparso un po’ sovreccitato. Ebbe l’idea di mostrarci come aveva visto danzare una baiadera durante una sua visita in Libano. Si alzò da tavola, prese un grosso tovagliolo e con passetti di danza cominciò a sventolarlo a destra e sinistra. No, non sono mai stata bella. Era affascinato dalla vitalità, questo sì. Subito abbiamo trovato un terreno infuocato di interessi e curiosità e una grande leggerezza, la voglia di ridere e giocare. Eugenio non era mai stato ragazzo. Prima l’infanzia in una città un po’ tetra come Genova, poi i tempi asfittici di Firenze, segnati da ristrettezze economiche. Aveva saltato i tempi giusti della formazione emotiva: la competizione, il rischio, l’esperienza della libertà. Un giorno lo vidi appoggiato al banco di un’agenzia di viaggio, metteva il piede all’interno come fanno gli orsi. “Mi sei sembrato un orso”, gli dissi. Ecco, fece lui, l’Orso va bene con la Volpe. Non aveva mai fatto sport. Una volta riuscii a convincerlo a venire sul tandem, ma siccome c’erano creste di terra rassodate dopo un temporale, il tandem prese a ondeggiare. Montale esclamò spaventato: “Pedala, angelo mio!”, senza accorgersi del surrealismo della frase. Non mi sostenne quando ho avuto bisogno: mai una telefonata per aiutarmi a trovare una collaborazione giornalistica. Così come evitò sempre di recensirmi. Carlo Bo e Salvatore Quasimodo recensirono certe loro amiche anche occasionali. Eugenio fino all’ultimo si mantenne fedele a quella che chiamava “decenza quotidiana” o rispetto borghese delle convenienze. La poesia è dedicata a Volpe, la donna che incarna l'eros, la passione amorosa. Volpe ha in sé il bene e il male, è capace di unire e dividere, da lei possono venire perdizione e salvezza: sulle gracili spalle di questa creatura selvaggia ci sono anche le ali dell'angelo, che solo il poeta è capace di vedere. Così Montale la descrive in Se t'hanno assomigliato, una poesia dei Madrigali privati.
«Avevo venticinque anni e morivo dalla voglia di incontrarlo. Conoscevo a memoria Ossi di seppia e qualche poesia delle Occasioni. Accadde al Teatro Carignano, nel gennaio del 1949. Montale mi guardò con un’intensità così forte che ne rimasi turbata. La mia era una famiglia borghese molto accogliente, che assecondava le mie passioni letterarie. Proust soprattutto, ma anche Montale. “Meno male che Proust è già morto”, fu il commento di mia madre alla notizia dell’illustre convitato. Eugenio ci avrebbe riso sopra, scusandosi poi con i miei genitori: “Mi dispiace non essermi ancora reso defunto”». Ci siamo molto divertiti insieme. Era persuaso che ogni giorno accadesse una scena comica. Bisognava solo trovarla. La sua era una risata a balzi. Prima cercava di arginarla, poi cedeva all’esplosione. Una volta rischiammo di essere cacciati dalla Scala. Era animato da un’inspiegabile antipatia per una ballerina classica. “Ha la faccia di una che perde le mutande in pubblico”, si lamentava. Cominciò il Lago dei cigni e dal tutù della poveretta prese a scendere una striscia di pizzo. Non posso dimenticare l’espressione grave di Montale mentre artigliava i due braccioli della poltrona: “Ci siamo!”. Scappammo dal palco piegati in due. Dopo il pranzo in famiglia, tornato al Corriere mi mandò un espresso. Poi sarebbero arrivate le gardenie, i profumi ricercati, le tenerezze, le poesie d’amore. Ma già durante il piccolo convivio era apparso un po’ sovreccitato. Ebbe l’idea di mostrarci come aveva visto danzare una baiadera durante una sua visita in Libano. Si alzò da tavola, prese un grosso tovagliolo e con passetti di danza cominciò a sventolarlo a destra e sinistra. No, non sono mai stata bella. Era affascinato dalla vitalità, questo sì. Subito abbiamo trovato un terreno infuocato di interessi e curiosità e una grande leggerezza, la voglia di ridere e giocare. Eugenio non era mai stato ragazzo. Prima l’infanzia in una città un po’ tetra come Genova, poi i tempi asfittici di Firenze, segnati da ristrettezze economiche. Aveva saltato i tempi giusti della formazione emotiva: la competizione, il rischio, l’esperienza della libertà. Un giorno lo vidi appoggiato al banco di un’agenzia di viaggio, metteva il piede all’interno come fanno gli orsi. “Mi sei sembrato un orso”, gli dissi. Ecco, fece lui, l’Orso va bene con la Volpe. Non aveva mai fatto sport. Una volta riuscii a convincerlo a venire sul tandem, ma siccome c’erano creste di terra rassodate dopo un temporale, il tandem prese a ondeggiare. Montale esclamò spaventato: “Pedala, angelo mio!”, senza accorgersi del surrealismo della frase. Non mi sostenne quando ho avuto bisogno: mai una telefonata per aiutarmi a trovare una collaborazione giornalistica. Così come evitò sempre di recensirmi. Carlo Bo e Salvatore Quasimodo recensirono certe loro amiche anche occasionali. Eugenio fino all’ultimo si mantenne fedele a quella che chiamava “decenza quotidiana” o rispetto borghese delle convenienze. La poesia è dedicata a Volpe, la donna che incarna l'eros, la passione amorosa. Volpe ha in sé il bene e il male, è capace di unire e dividere, da lei possono venire perdizione e salvezza: sulle gracili spalle di questa creatura selvaggia ci sono anche le ali dell'angelo, che solo il poeta è capace di vedere. Così Montale la descrive in Se t'hanno assomigliato, una poesia dei Madrigali privati.
Se t'hanno assomigliato
Se t'hanno assomigliato alla volpe
sarà per la falcata prodigiosa, pel volo del tuo passo che unisce e che divide,
che sconvolge e rinfranca il selciato (il tuo terrazzo, le strade presso il
Cottolengo, il prato, l'albero che ha il mio nome ne vibravano felici, umidi e
vinti) - o forse solo per l'onda luminosa che diffondi dalle mandorle tenere
degli occhi, per l'astuzia dei tuoi pronti stupori, per lo strazio di piume
lacerate che può dare la tua mano d'infante in una stretta; se t'hanno
assomigliato a un carnivoro biondo, al genio perfido delle fratte (e perché non
all'immondo pesce che dà la scossa, alla torpedine?) è forse perché i ciechi
non ti videro sulle scapole gracili le ali, perché i ciechi non videro il
presagio della tua fronte incandescente, il solco che vi ho graffiato a sangue,
croce cresima incantesimo jattura voto vale perdizione e salvezza; se non
seppero crederti più che donnola o che donna, con chi dividerò la mia scoperta,
dove seppellirò l'oro che porto, dove la brace che in me stride se,
lasciandomi, ti volgi dalle scale? (Eugenio Montale)
Solitudine
Solitudine marina, / il tramonto è l'addio/ dei
vecchi pensieri. // Immagine del cuore / nella mente. // Il vento della
collina, / andando per miglia/ e miglia di fitte pinete. //
Pescatori
Mattina
d'estate/ sogni d'amore, / l'alba si sveste / nelle pinete. // Nel porto il
sole / bagna i marinai, / sull'acqua agitano/ la loro forza regale. // Dolore
nel paese / pesca, l'onda del mare / solleva la barca. // I pescatori /
maledicono il vento. / Attendo che il sole/ alleggerisca il mare. /
Luna
Vergine
luna / appare sulla collina. / Gli alberi pesano / al cuore della notte. //
Amare le radici. // Sulla mia fronte/ suonano le foglie. // Oltre i confini del
bosco / la luna. Col volo delle rondini / le vie della collina. //
Valle
Qui il
giro lento delle notti, / l'ansia cresce la flora / meravigliosa della valle.
// Qui ogni riposo è dolore, / il tempo nei rami degli alberi / e la notte
conduce / alla fissità irreale della sostanza. // Pietra od erba nel campo / e
valle in me si sprofonda / al grido ilare degli uccelli. // Sia di conforto la
voce. / Qui giace la vita perduta.
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