L'autunno delle donne del carcere Sanquirico di Monza (parte seconda)
Il 400 e l’
Umanesimo
“Tre donne in giro, dalla
destra rota, venian danzando” (Dante)
È domenica 21 dicembre: ci si ritrova lì sulla
riva, con una virilità spirituale, efebica. Lo spettacolo di tutti quei destini
poteva generare in noi il dubbio che forse avremmo potuto compiere un nuovo
tentativo di forzare quel mondo “interiore” e questa volta con pieno successo.
Ma non era il momento di imbandire le incertezze. Eravamo in tempesta come in
pieno inverno: una tempesta di attesa prima di entrare nella spelonca piena di
grappoli di vite. Anche un dio avrebbe gioito nel suo cuore dinanzi a noi,
piccole Argifonti, messaggeri intorno alla rocca di Priamo. Ci incontriamo
all’ingresso del grande cancello grigio. Questa volta, con noi, c’è Claudia con
la sua arpa, sgabello, spartiti, asta, una quantità di attrezzi indispensabili
che maneggia con cura. È il solstizio d’inverno, solis statio: fermata
del sole. Il primo giorno d’inverno dove il sole arresta in maniera misteriosa
la propria corsa apparente ed è al nadir, il punto più basso. È il tempo in cui
il contadino getta il seme nei campi, consapevole che la terra è oscura e
fredda, ma che questa condizione favorirà la trasformazione del seme in spiga,
da uno in molti, nel tempo giusto. È il giorno che ispirò il frammento 66
dell’opera di Eraclito di Efeso e cantato allegoricamente da Omero e da
Virgilio (VI libro dell’Eneide). Il giorno del passaggio dalle tenebre alla
luce. Ed è proprio una festa di luce che ci accingiamo
ad accendere nella casa delle donne di Sanquirico con le musiche di Domenico da
Piacenza (1450), Lorenzo De Medici (1442-1492), Guglielmo Ebreo (1463), con la
“Ruota del tempo” di Wilhelm Heinrich Wackendroder e con le danze Anello, Lauro e Petite Riense, nella speranza che questa tal virtute e scinzia essere di grandissima e singolare efficacia, et alla umana generazione e amicissima e conservativa, sanza la quale alcuna lieta e perfetta vita essere infra gli uomini già mai non puote..(Guglielmo Ebreo da Pesaro)
La sala polivalente è in festa: alle pareti fili
d’argento e candele rosse, unici indizi di un Natale alle porte. Tutto il resto
è al solito posto: le panche di legno, il piccolo altare, il mobile con lo
stereo, il grande crocifisso alla parete. E noi di corsa, come l’ultima volta,
per la routine dei controlli all’ingresso. Claudia ha già terminato di
accordare la sua arpa. Mi accompagnerà nella lettura della fiaba
orientale di Wilheim Heinrich Wackendroder: “La ruota del tempo”. L’oriente è
la patria di tutte le meraviglie, nell’antichità e nell’infanzia delle idee dei
popoli orientali si trovano anche i più strani misteri che raccontano di esseri
strani che sono venerati come santi.
E “La ruota del tempo” narra di uno di loro che “(...) non aveva notte e giorno, mai pace
nella sua dimora: sempre gli pareva d’aver nelle orecchie la ruota del tempo che
senza posa, girava, rombando…lo si vedeva affaticarsi nel movimento di far
girare quell’immensa ruota” ma “(...) appena risuona la musica e il canto, la
rombante ruota sparisce di mano al santo ignudo…erano quelle le prime note
musicali che cadevano nel deserto, e il genio che si era smarrito, fu liberato
dal suo involucro (...) un’immagine spirituale bella come un angelo…s’innalza
secondo le note della musica in un movimento di danza, dalla terra verso
l’alto, sino alle stelle…questa folle libertà, che per opera della quale
nell’anima umana si uniscono amichevolmente gioia e dolore, natura e artificio,
innocenza e violenza..venite voi suoni, avvicinatevi e salvatemi da questo
doloroso sforzo terrestre verso le parole, avviluppatemi con i vostri raggi multiformi
nelle vostre nuvole splendenti e sollevatemi su, nel vecchio abbraccio del
cielo che tutto ama”.
È “l’amor che muove il sole e l’altre stelle”
avrebbe pensato Dante nel vederci ancora lì, trepidanti come l’ultima volta;
febbricitanti nell’attesa di quell’incontro che si rinnova con qualche volto
nuovo o con l’assenza di chi è già andato via. Forse! Claudia, avvolta in un elegante manto rosso,
sprigiona le note della sua arpa, dapprima lievi, crescenti, ora più deboli
come un eco che smuore, infine forti e commoventi, come gli accordi profondi di
un organo. E sono carezze, conchiglie e piccoli uccelli e fiori dai mille
colori e gigli e palle colorate e lacrime d’ambra che le Eliadi stillano dagli
alberi. Non c’è parola che possa descrivere l’espressione
d’incanto delle donne della casa di Sanquirico che, come per magia, si lasciano
catturare dalla musica dolce e dalle mie parole. E lo spazio si accende tutto
intorno a noi, quello stesso spazio che è solito vivere all’ombra del tempo
sospeso. Ricordo un volto, fra i tanti. Una giovane donna
italiana con i capelli lunghi che scendevano alla rinfusa sulle spalle,
lasciando libera la fronte piccola e graziosa. Le sue pupille brillavano più
delle stelle che risplendono in una notte senza luna. Quella nuova luce che le
nozze celebrate qualche giorno prima le avevano imperlato di gioia tutta la
persona.
Si era sposata con uno straniero, anche lui detenuto. Mi mostra con
orgoglio la fede :«Uscirò di qui prima dell’estate. Il pensiero di lui mi aiuta
a stare meglio qui dentro, mi aiuta a sperare e a sognare. Tutto sembra più
facile, adesso. L’amore mi aiuterà a superare tutto». E continua a guardare
quella fede al dito che prima non c’era. La malinconia nel volto di chi le
siede al fianco, con gli occhi lucidi, sembra andar via con le prime note
musicali che annunciano le danze di ADA. Tutte insieme le ballerine, in un
unico coro, incedono lentamente nella danza Anello, sulla musica di Domenico da
Piacenza.
I loro corpi, nascosti dagli antichi abiti, si
avvolgono liberati da ogni peso e sembrano trascendere, divenendo ricettacolo
della potenza delle loro anime. In loro, nei loro sguardi, il desiderio di
danzare che sembra elargire vittoria, salute, vita. E’ un indicativo di
trascendenza che regala emozioni e bellezza, diventando non più semplice gioco
ma partecipazione, celebrazione. E con la bassadanza il tutto sembra collegarsi
alla magia e alla festa, all’amore e al dolore, diventando un canale di
comunicazione ed elemento unificante. Una sorprendente unione di corpo, cuore e
spirito.
“La armonia suave è il dolce canto/ che per l’audito passa dentro al core, /di gran dolcezza nasce un vivo ardore, /da cui il danzar poi vien, che piace tanto!” (Guglielmo Ebreo de Perseo) Dettagli
Le fotografie sono di Francesca Ripamonti. Le donne sono attualmente recluse nel carcere di Monza. Dal progetto firmato Zeroconfini Onlus www.zeroconfini.it nasce Amori sbarrati, un'antologia edita da LietoColle.
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