L’autunno delle donne del carcere Sanquirico di Monza (Parte terza)
“Nessuno è malvagio di sua volontà, e neppure
beato senza volerlo” disse il poeta. Nessuno desidera il proprio male; e chi lo
compie, lo fa senza rendersi conto che è un male…Tutti vogliono il bene, ma non
tutti possono raggiungerlo, non in quanto manchi il potere di volerlo, ma
perché manca il potere di riconoscerlo: in quest’ultimo dunque consiste
veramente il potere” dice Socrate a Menone.
Il sole sembra
più caldo in questa domenica di ottobre. C’è qualcosa nell’aria che ispira la mente con alti
pensieri e passioni, come tutte le cose troppo grandi per la nostra
comprensione, e la getta in una sorta di trepidazione al di là di questo muro
smisurato che si erge davanti a noi. Questa disposizione dello spirito ci
accompagnerà per tutto il breve viaggio. Lasciamo fuori lo sguardo dove ancora
può librarsi con le nuvole nell’aria fino a riempirsi di spazio infinito,
sfuggendo al suo recinto e alla sua forma. In questo varco fra mondo aperto e
chiuso gettiamo un ponte temperante, portando sulle frange del limite una
meteora di lievità. Forse! Ci sono nature spoglie, senz’acqua, con terreni nudi e
secchi che le stagioni possono modificare e alimentare. Ci sono periechon, ambienti
che avvolgono con il loro calore, in un rapporto di continuità-discontinuità,
materia e spirito, vita e morte, gioia e dolore. Ci sono terreni dove non si
vedono splendide messi e il sole fa fatica ad entrare, dove il caldo umido si
mescola alla malinconia dell’aria che colora di luci e ombre i pensieri appesi.
Luoghi dove la fermentazione dell’impuro è più
feconda, dove la “bellezza” diventa cerniera spirituale. Ed è li, fra i vapori
del tempo lento sempre più incapace di pensare con la sua libertà, che andiamo.
Oltre la riva, nell’inimmaginabile. Oltre il confine che vieta il mare. E, come
Pinocchio che lascia sulla sedia accanto al letto la sua spoglia naturale,
diventiamo cantori e dame per sublimare la bellezza, penetrando in
quell’angoscia del limite, oltre la potenza della ragione. Aggiungere un eco, un pezzo di cielo sul volto di
Dedalo, un faro su un mare notturno. Sfiorare quel mondo, percepirlo
dall’interno, in quell’intrico di corridoi che trascina in un turbine di
solitudine fredda e ampia.
Una nuova luce misteriosa ci avvolge tutt’intorno. Ce
la sentiamo addosso, come una forma che riempita di aria lieve quasi si
solleva. I nostri passi spaziano pallidi. La sala polivalente ci pare un’unica
percezione, un suono sommesso come una grande sfera che ci avvolge e ci guarda
estranea e vitrea e ci dà i brividi. I pochi oggetti pesano ai loro posti
fermi. Le panche, il mobile nero con il registratore, un piccolo altarino, due
immagini sacre alle pareti. Sono raccolti in sé come un pugno serrato, non sono
niente o possono ancora diventare tutto. Come onde
fluttuanti i volti delle donne spingono gli sguardi su di noi. Sono sempre più
profondi, alcuni protesi in tremiti sorrisi: ridono con le loro anime segregate
davanti a quel dono d’autunno. Mi curvo verso di loro nel tentativo di attraversare
quegli sguardi, lasciando cadere in mille morbide pieghe fili di parole
affinché si perda il senso del tempo. Di quel tempo sommesso che il suono del
violino di Davide accompagna fra alberi, prati e sogno. Una musica che indugia
teneramente, si lascia cadere, e sale risoluta portata dal segreto della sua
solitudine come un animale straniero nello spazio vuoto colmo di meraviglia. Le
donne lasciano confluire l’emozione verso l’esterno mentre l’interno si espande
in loro, in comune, tutto fino in tondo.
Tutte le cose
sono, talvolta, presenti due volte. Avrei voluto penetrare con i miei
sentimenti ancora più profondamente in ognuno di loro. Sento i loro sguardi
avvinghiarsi strettamente, come il teso oscillare di due corpi che stanno uno
accanto all’altro su una fune. Avvertiamo dentro di loro un crepitare di
tensioni che si acquietano nella sensibilità della più piccola certezza
interiore. Dietro tutti i grovigli delle loro esperienze reali sta passando
qualcosa simile a uno sfondo da cui tutto si scioglie, come al caldo si destano
gesti sonnolenti da un rigido freddo.L’inquietudine
viene sfiorata d’improvviso da una sensazione sottile che nel suo fluire si
posa su quelle facce aperte alla luce, al desiderio di strappare via da loro
tutto quanto le circonda, come una pesante ondata di risciacquatura. Questo
nostro primo incontro richiama il viaggio. Il viaggio circolare affidato alla
recherce delle possibilità e delle alternative piuttosto che al principio di
realtà. Il viaggio che
permette di entrare nella propria esistenza per estrarne il senso, dipanando
quel filo del tempo ritrovato che contiene l’essenza della vita vera, anche se
esiliata. Riconoscere le intermittenze del cuore per percepire frammenti
luminosi di una vita che, anche se straziata e dispersa nell’ombra, può
magicamente costruire. Una sfumatura di luce che possa prendere forza e
brillare attraverso la parola, il movimento e la leggerezza della musica e del
canto che risuonano e fanno cerchio con le note del Tempus transit gelidum, da Carmina
veri set amoris, anonimo XI, El Rey de Francia e la Dance en ronde.
Raggiungo ognuna di loro con “ Il giardino di Lu” di Vinicius de Moraes. Si, il fluire di
un silenzio indeterminato si carica fino a trasferirsi negli oggetti e a
confondersi con qualsiasi altro palpito di vita. La parola stessa si intride di
sensualità e vibra nell’eco della stanza, illuminando per un attimo quella
parzialità di vite negate. Intanto le note del violino diventano libera
correlazione associativa, si accavallano in un fluttuare di richiami, in una
sorta di incanto dove confluiscono le minime vibrazioni e le trasformazioni dei
microelementi.
Cerco di dare
ancora più slancio alla mia ispirazione in una tensione appassionata della
“Notte di Sine” di Léopold Sédar
Senghor. Uno stato di sospensione coinvolge
tutte le donne che fissano in una sorta di incantata sincronia il volto
delicato di Davide che trascolora al ritmo delle note e al loro accrescimento.
Siamo riusciti a fondere quella frantumazione della loro esistenza in una
ricomposizione di incantamento su un vuoto, sul punto zero fra realtà e possibilità? Forse.Intanto Chiara
dona ad ognuna di loro nastrini di velluto su cui una sarta di Adonai ha cucito
pazientemente fiori di stoffa dai colori più vivaci. Una dolce e tenera aria
primaverile palpita tiepida nell’aria nuova. Tutte le donne hanno fra i capelli
ghirlande di fiori: sembrano turgide gemme fiammanti. C’è allegria nella
stanza, fiducia in quel gioco che vale la pena di giocare e di
cui si può essere lieti.
Il Tempus transit gelidum infrange l’atmosfera con la sua melodia e accompagna
le donne di ADA nei loro movimenti. Chiara guida le danze mentre si lascia
scivolare fra il fruscio delle vesti di fine damasco mentre i suoi capelli
accarezzano l’aria e i piedi la terra. Sembra uscita da un ritratto di Tiziano
che, dopo averla vista, non vuole che dipingere questa donna e solo lei.
Leggera e altera nello stile di una soggettività che si modella
nell’oggettività del mondo col suo linguaggio, nell’interezza di una luce
sempre più propria. L’alternanza e la mescolanza di questi sentimenti hanno un
seguito ininterrotto e creano una sorte di colloquio con il convincimento del
valore di prova riposto nella sofferenza di quel luogo. Tutto sembra ricomporsi
nel gran fiume, nello splendore della sua cristallizzazione. Sono immersa
anch’io, inghiottita completamente da quella corrente di armonia di suoni e
movimenti che brucia sottile negli azzurri della danza Sefardita. Accade, accade inverosimilmente. Una possibilità
di fuga dal luogo dell’alienazione, dal luogo della sofferenza e il ritorno
alla felicità con l’idillio della Dance
en ronde
che permette alle donne di cogliere l’essenza della costruzione,
dipanando quel filo del tempo ritrovato con la leggerezza della musica e del
canto che risuonano e fanno cerchio nella farandola.
Le donne di Sanquirico diventano protagoniste in un’action painting fatta col corpo in un recupero dell’espressività, nella naturalezza del gesto come corrispondenza e continuazione di un’emozione interiore. L’immagine che ho di quei momenti è ancora nitidissima, carica di una vitalità con tutta l’assolutezza e l’irragionevolezza di una passione unilaterale che ritaglia e dilata quella parte ampollosa della vita. A Sanquirico il
tempo punge, morde, trafigge ogni ora. L’arrivo di un forestiero può allietare
la coscienza del disagio e la nostalgia di provare a sanarlo, così la Carmina veri set amoris, Anonimo XI diventa
Uno Tutto e l’approssimazione asintotica dell’irraggiungibile infinito.Tutte le cose
raccontano, dice Stifter, con l’infinito presente del verbo, movimento e
permanenza. Il tempo dell’esistenza è un viaggio che ritrova i luoghi e gli
istanti della propria odissea. La luce della
sala muta di colpo. La luce ombrosa che filtra dalle sbarre viene assalita dai
colori delle ghirlande di fiori delle donne di Sanquirico e getta i suoi
riflessi sugli abiti fruscianti delle dame. Le guardie carcerarie sembrano
divertirsi in questo fervore che prolifica di una vivace varietà di note. I
suoni sono così freschi e brillanti che stringono tutte le righe del cielo, fin
dove il sole ha dimenticato il Levante.
Le opere sono di Maria Micozzi www.mariamicozzi.it
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