L'incantatrice di Monza
Venite a me, questa storia è un viaggio fantastico.
C’era una volta una bella
incantatrice, la donna più bella che si fosse mai vista. Sapeva cantare,
suonava il flauto e conosceva il
linguaggio dei fiori e il loro significato: il ciliegio era per la felicità, il
narciso per la gioia, il loto per la purezza e la verità. Le gemme di melagrana
portavano la fertilità, le olive l’onore e le pigne lunga vita e ricchezza. Girava
nel bosco alla ricerca delle foglie e delle radici di belladonna per rendere più brillanti i suoi occhi. Ogni mattina,
quando si alzava dal letto, la sua dama di compagnia aveva l’ordine di dire: ecco che si sveglia la donna più bella del
mondo che apre gli occhi e guarda il regno della sua bellezza. Tutti i giorni, al sorgere del
sole, si intrecciava i lunghi capelli d’oro e il principe dei poeti la
contemplava, da lontano, in adorazione. Affacciata al balcone la bella incantatrice si sporgeva dal
davanzale su un cuscino di velluto rosso affinché il mondo intero potesse
ammirarne le sue grazie.
Portatele delle poesie - diceva il principe – portatele dei fiori o
imparate bene un madrigale. Ditele che il mio cuore è triste se non vede i
suoi occhi brillare. Ditele che i miei occhi offuscati dalla sua bellezza
vogliono pascolare alla sua vista. Ditele che ho scritto per lei lettere e
poesie d’amore e che ogni sera sarò sotto il suo balcone e le canterò lunghe serenate d’amore. E così fece, il principe dei
poeti. Per trecento notti rimase sotto il suo balcone e le cantò i versi più
belli che un innamorato abbia mai potuto scrivere: intreccia il tuo nido negli abissi dei miei occhi – cantava - o esile corpo simile ad un alberello che cresce
nel giardino del mio cuore! Alla sola vista
di una goccia di sudore sul tuo viso, io potrei
morire all’improvviso.
Il principe dei poeti si convinse
e decise di seguire il consiglio del giullare di corte. Mise del formaggio sul
ponte del Lambro, delle briciole di pane nel fiume, giù a valle, e seguì la
strada lastricata di formiche. Una volta arrivato in cima al monte, si dissetò
e, stordito da così tanta pace, si addormentò. Nel lungo dormiveglia, gli apparvero le damigelle di corte: si
muovevano descrivendo traiettorie che ricordavano il moto delle stelle, le
curve e i muletti dei corpi celesti che giravano intorno al sole. Rapite dalla
musica giravano, ondeggiavano e rimescolavano
l’aria, trasformandola in una magica zuppa insaporita di spezie. Il cuore del principe riprese a
battere, il sangue a scorrere e la lingua
gli si gonfiò quando nella stanza vide una
candela accesa , nell’angolo nascosto, la donna più bella del mondo che gli servì
del vino in una caraffa di vetro dorato. I salotti avevano alti soffitti a
cupola, affrescati con cherubini che
volavano nel cielo blu e si affollano intorno a materassi di nubi dove Ares e
Afrodite facevano l’amore. Il principe si sentiva come illuminato da un raggio
di sole a mezzanotte. La donna più bella del mondo era distesa sul letto, mangiava
uva da una fruttiera. Era vestita solo dei suoi capelli d’oro. La stanza era
appena illuminata, una sola candela diffondeva una luce fioca dal candeliere
fissato al muro. Un fazzoletto di seta, un medaglione con il ritratto di sua
maestà, un libro esagonale e rilegato in pelle. Null’altro vide. Intanto il
sole saliva allo zenit, l’aria fremeva come un’antilope sulle campanelle alle
caviglie delle danzatrici. Le sete
lucenti sventolavano come bandiere dalle finestre del palazzo mentre i canti
spezzavano i sigilli dell’universo e facevano entrare la divinità del mondo. Le poesie aprivano il cuore e la mente. La corte si era affollata di forestieri
esotici, di personaggi impomatati, di mercanti segnati dal sole e dalla pioggia
che indossavano turbanti dorati. Il principe, con la coccarda e una giacca di
broccato d’oro, portava la polvere della terra conquistata agli dei che ballavano
al suono dei flauti, tanti, tanti, tanti flauti. Un’altra porta si aprì. Il
principe entrò nella stanza. Aveva atteso quel momento per trecento notti e
trecento giorni. La bella incantatrice di Monza era lì che lo aspettava
illuminata da un raggio di luna piena. Aveva
lasciato cadere il sottile velo di seta e liberò la sua bellezza. Il principe
l’accarezzò per tutta la lunga notte con gli oli profumati, alla luce della
luna. Ma il sogno era come una marea, cresceva e poi rifluiva e svaniva quando
la grande ruota aveva completato il giro.
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